Cena

 Non ho mai sofferto così.

Per modo, non intensità 

Lacrime che scendono senza strazio, senza dolore.

Eppure soffro

Soffro in un silenzio totale 

Di totale nulla. 

Forse il nulla che ho scelto

Dove le lacrime scendono spontanee

Incontenibili

Nel rifiuto totale di percepirsi

Nella lotta infinita del sopravvivere

io sono stanca
Ma non accetto la morte
Stanca di aver fede
Mai stanca di sperare
Imperfezioni condivise fin dove la morte della dolcezza uccide

Memorie dal sottosuolo

Risultati immagini per MEMORIE DAL SOTTOSUOLO“Io non solo non ho saputo diventare cattivo, ma non ho saputo diventare niente: né cattivo né buono, né furfante né onesto, né eroe né insetto. E ora vivo nella mia tana facendomi beffe di me stesso, con la maligna e vana consolazione che d'altronde un uomo intelligente non può diventare sul serio «qualcosa», solo uno stupido diventa qualcosa.”
(doppiozero - memorie-dal-sottosuolo)



IL RICONOSCIMENTO




Io sono nessuno
il nulla nell'Altro
Il mio esserci è altrove senza dove
in un luogo che ancora non è.


"Qualunque cosa l’uomo faccia, la fa innanzitutto per essere riconosciuto" (Hegel)

bellezza


Perché certi occhi sono così belli
Perché certi volti di donna così perfetti
Che vorrei essere così
Perché mi vedo e so di non essere
Perché la bellezza così tanto mi preme
Mi rispecchia e non ripaga
Pur ripagando nel giorno.


mio intimo


Potrei dire
Tanto  è troppo, è poco.
Intimi
Nessun dire può dire dei gesti
Silenzi che nutrono altri non detti
Non dire che già so
Il mio occhio  è il tuo
Questo spazio è nostro
Nessuno lo sa
Nessuno lo violerà'
Nemmeno io

LA VIA


Come pioggia da nubi esauste
come neve da tetti colmi
come acqua di fiume in piena.
Accade.
Accade, e basta.

IL MIO CHE NON È MIO

Il mio libro l'ho dato a te
è tuo come io sono tua
e siamo cosa sola
insieme, così insieme da lontano
lontani e qui
che mi sembra di respirarti.

COSÌ

Zero assoluto. Sbadiglio agli albori del giorno
E mi domando di questo pieno che ho dentro
Sono qui ora? E dove? E quando?
Amatemi come amo amarvi
Ogni carezza è sorriso
Ogni stranezza è  quel che sono
Semplice scatto d'un istante di me.

ANTONELLA BUKOVAZ: DUE POESIE

Risultati immagini per MITEZZAAllora guardami
io sto
non è solo scrivere
faccio ciò che dico
sto
ti do la mia pelle
sono una donna giusta
nel mio stare
ho incollato il passato
leggo
il dolore sulle foglie
anche il tuo è autunno.




Sto ferma ferma ferma per essere anche altrove.
E’ questa la mia idea di mitezza – tende
a mettere a fuoco per vedere
anche sott’acqua in un perenne battesimo
perché se stai fermo fermo fermo
sprofondi nel senso della terra e si fa acqua
il gesto – fusione del creato – potenza di passaggio
verso lo stato aeriforme
una volta dichiarato che possiamo volare
soltanto se disposti a smettere di camminare.


ENRIQUE VILA-MATAS

La seconda opera è la brezza. La prima è il luogo buio, dove ti ritrovi indifeso, solo, soggetto a tutto, e senti forse, a momenti, rumori, bisbigli, intuisci movimenti e a volte sei raggiunto da toccamenti, urti e carezze che non sai da dove e da chi vengano. È un’opera che non c’è; c’è solo nella misura in cui la vivi, ti esponi ad essa entrando, ogni volta diversa, variata. Altrimenti si sottrae alla percezione; o meglio: è la percezione del buio totale: se uno non entra, da fuori c’è solo il buio, la percezione di non percepire.
La brezza percorre tutto il libro, è una delle immagini chiave; ma si sente perché prima si è stati esposti al buio, allo spaesamento, alla fragilità, alla solitudine e alla paura. È l’invisibile che ti càpita. Si comincia a scrivere così. Poi la brezza spinge. (Ma nel luogo buio si torna sempre comunque.)Il narratore infatti ci torna regolarmente. È un po’ una metafora del suo (e nostro) agire e vivere, la perdita di ogni riferimento, l’acuire i sensi senza nessun risultato, la tensione l’allerta e l’abbandono, il desiderio e la paura del contatto, ad opera di chiunque, nel buio in cui si brancola. 

CORPO

Corpo, non parli
Corpo, sei morto
Ostile trattieni ogni luce
Corpo, mi pesi
Non voglio guardarti
Vestirti, spogliarti, condurti
Corpo, cambia!
Torna da dove venisti!
Sparisci! Non ti voglio

UN "TRA"

Non pensare, c’è solo il vuoto lì dentro.

Taci, taci. Chiuditi, chiudi la porta, oscura la luce e soffri. Soffri in silenzio. Nessuno può capire, nemmeno tu ti capisci. Accetta. E’ così, oggi va così. Aspetta un sollievo, a caso, senza senso, perché’ un senso non esiste, non c’è. Ne hai solo bisogno, ma non c’è. Hai bisogno di trovarlo, di desiderare “la cosa”, di direzioni e mete cui aspirare, non da conquistare. E’ buono quel che sta “tra”. Hai bisogno di un “tra”, sei in cerca di un “tra”.

STATO D'ANIMO

Si poteva parlare
intrecciare parole.
Tutto è lontano
caduto dal cielo
le ali piegate, le mani sui muri.




PERDERE LA TESTA. GINNASTICA E FILOSOFIA

Risultati immagini per torso acefalo
La forma che siamo chiamati a dare alla nostra vita sembra in realtà riguardare innanzitutto il nostro corpo, e l’esercizio che la rende possibile ci riconduce in primo luogo alla ginnastica. Il rapporto con la verità implica uno sforzo che è reso possibile solo dall'accesso alla dimensione faticosa e ininterrotta dell’esercizio: un esercizio di padronanza sulle passioni, sulle abitudini e sulle idee, che permette di passare dal mero essere-formato al versante del darsi-forma. La filosofia, come la ginnastica, è una pratica: non riguarda l’adesione a un determinato sistema di credenze ma una trasformazione di sé, prodotta da una vita incentrata sull'esercizio che consiste nell'uscire dalla corrente, nel combattere l’inerzia da cui veniamo così facilmente avviluppati e trascinati. La filosofia è un esercizio di esposizione, una pratica dell’inquietudine, dell’apertura all'ignoto, all'altro, che non coincide affatto con un lasciarsi andare. Quando si conosce prima il cammino, il cammino migliore, quando si conosce la mappa, quando si sa prima dove dirigere i propri passi e verso quale destinazione, non c’è né riflessione, né deliberazione, né giustificazione da dare, perché non c’è alcuna indecisione. È già deciso, perché non c’è alcuna decisione da prendere. La filosofia ci insegna di nuovo a camminare, richiama la nostra attenzione sul singolo passo. Ogni volta che, muovendoci d’un passo, ci reggiamo ancora in piedi, è solo grazie alla capacità di ritrarci dallo sbilanciamento a cui ci esponiamo; ogni volta che ci squilibriamo nell’atto del camminare, non è affatto ovvio dove il piede andrà a poggiare, quale sarà l’appoggio migliore… Potremmo accorgerci allora che, ogni volta che camminiamo, stando eretti, siamo degli acrobati, rasentiamo l’impossibile. Il discrimine non sta tanto in ciò che pensiamo ma nel come lo facciamo, o meglio se lo pratichiamo, se riusciamo a mantenerci in un rapporto con il senso e la verità che, pur mettendoci in relazione con essi, non li irrigidisce, non pretende di possederli.
Potremmo intraprendere così la filosofia come esercizio di eterocezione: in questione è la percezione dell’altro, il rapporto con l’ignoto. La filosofia resiste alla spinta a circoscrivere l’altro, a dargli un nome., a convincersi che, qualora non lo si possa espellere, lo si può addomesticare. L’ignoto, l’imprevedibile, l’incalcolabile rimangono tali, e solo continuando a salvaguardarli, percependone la presenza, sporgendosi verso di essi, fuori e dentro i propri confini, il pensiero può continuare ad esercitarsi. Nella nostra inadeguatezza, spesso perdiamo l’equilibrio, o forse solo ci illudiamo di mantenerlo, perché ci lasciamo intrappolare e condurre da percorsi predefiniti, facendoci sostenere da supporti già pronti a cui ci appoggiamo. Con ogni probabilità non potremo mai liberarci del tutto da questi sostegni e da queste trappole. Ma , forse, la ginnastica può renderci un po’ più liberi, poiché ci aiuta a sperimentare la precarietà della nostra condizione e dell’equilibrio che ricaviamo dalle nostre condizioni e dai nostri discorsi.
Il torso di Apollo è un torso acefalo, il cui sguardo inquietante non proviene dagli occhi, assenti: l’appello alla forma che esso ci invia ha forse a che fare proprio con la perdita del capo, della sovranità, con la capacità, impossibile da conquistare, di tenersi insieme, di trovare un’armonia, un senso che non poggino sull'univocità e sulla chiusura dell’appropriazione e dell’identità, che si reggano e si elevino in uno scarto continuo dalla dimensione del potere.

(tratto da: ESERCIZI PER CAMBIARE LA VITA – IN DIALOGO CON PETER SLOTERDIJK)

IL PROBLEMA DELLA TECNICA

Risultati immagini per NUOVE TECNOLOGIELa possibilità, insita nell'essenza stessa della tecnica, di pensarla differentemente, assume toni salvifici. Tale possibilità è ciò che salva. Fino  a che pensiamo la tecnica come strumento, restiamo anche legati alla volontà di dominarla. E in tal caso, passiamo semplicemente accanto all'essenza della tecnica.

(Sloterdijk)

STRESS E LIBERTÀ’: “LA BEATITUDINE NOTTURNA DI ESSERE GRANDE SENZA ESSERE QUALCOSA!”

Il soggetto in via di formazione chiamato nogetto per la sua irriducibilità ai campi sia della soggettività sia dell’oggettualità) prova delle esperienze che condizioneranno tutta la sua vita cosciente: l’inclusione nel corpo materno condivisa con la placenta (vero e proprio doppio del soggetto che si sta formando, origine di ogni apertura all’alterità), la sospensione nel medium amniotico, i frammenti di comunicazione con la madre. All'interno di tali coordinate, la storia umana non è altro che la storia dei titanici e patetici tentativi da parte dell’uomo di climatizzare l’esteriorità spaesante tramite la creazione di sistemi di inclusività materiali e simbolici, architettonici, culturali e metafisici (sfere). La sfera è la risposta trovata da Sloterdijk alla domanda sul nostro dove. Le società sono agglomerati di monadi bi-individuali, di microsfere, che sarebbero le condizioni di base dello stare-insieme umano, fondate sulla costituzione nogettuale del soggetto. Si tratta però di uno stare-insieme mai acquisito una volta per tutte: questa teoria interpreta i gruppi umani come instabili agglomerati di individui tenuti insieme da una molteplicità di modalità comunicative plurali, collettati costantemente e continuativamente dai media e dalle singole strutture che agiscono come container di forze semantiche e propagandistiche.  In tal senso i collettivi non sarebbero altro che conglomerati di esseri umani creati ad hoc da strategie comunicative, da ondate di imitazione, da abili strumentalizzazioni delle passioni e dello stress messe in campo da attori che hanno di mira un certo ideale di uomo e di umanità, i quali costituiscono al contempo inizio e fine dell’appello alla socializzazione stessa.
Lo stress e l’intera sua area semantica si riconfigurano in termini di “ira”, nonché le sue modalità di accumulo e rilascio psichico a livello sovraindividuale. L’ira sarebbe infatti una passione collettiva e collettivizzabile: è l’energia psichica monetizzabile per eccellenza. Storicamente, l’impegno ad accumulare le energie psichiche dei singoli e delle masse è imputabile a quei grandi collettori che hanno agito come banche delle passioni, dei sentimenti, delle energie mentali in genere, che hanno immagazzinato le energie psichiche differendone l’immediato dispendio in vista di uno sfruttamento futuro. Le società rappresentano delle gigantesche banche di energie pulsionali degli individui che si regolano e si mantengono immagazzinando i potenziali umani di rivolta contro l’esistente, per rivolgerli alla costituzione di costrutti sociali.

La funzione dei media nella società multistratificata stress-integrata consiste nel provocare ed evocare i collettivi come qualcosa a cui viene somministrata giornalmente, ora per ora, una nuova proposta di irritazione, di indignazione, di invidia, di presunzione: una quantità di offerte che si rivolgono ai sentimenti, alla disposizione all'angoscia e all'indiscrezione dei membri della società. La Nazione è un plebiscito quotidiano. L’attualizzazione dei legami sociali nei sentimenti dei membri della società può essere perseguita dunque solo tramite la cronica produzione di stress simbolico e tematico. I collettivi sarebbero dei collettori di passioni, privi di una struttura rigida, acefali, che funzionano secondo ondate di stress indotto dai media, i quali quotidianamente creano quelle passioni timotico-stressanti che hanno capacità di far sentire uniti gli individui. I collettivi si generano a partire da ondate mimetiche di stress condiviso. Non esistono né soggetto né libertà, se non al di fuori dei collettivi portatori, gestori e creatori di stress che comunemente vengono chiamati società. Il soggetto esperisce la libertà in maniera eminente solo a partire dalla separazione dalla collettività. Al contempo, “si performa” costantemente tramite l’esercizio. Un soggetto ascetico, atleta del mondo ma non della rinuncia, che fa della pratica la propria essenza. E anche un soggetto condannato alla solitudine. L’uomo vive l’ascesi e l’esercizio come modalità di separazione dal mondo, ma al contempo rimane nel mondo. Un soggetto che fa l’epoché dai collettivi totalizzanti, ma che non crea un mondo separato da contrapporre a quello esistente. Se il mondo intero diventa un palcoscenico, è perché esistono secessionisti che stabiliscono di entrarvi soltanto come spettatori, non come partecipanti. La loro comparsa genera la sfida etica dell’esistente: dal “confine del mondo” questi osservatori intendono testimoniare lo svolgimento dei fatti nello stupefacente locale. La tensione verso l’autopoiesi non è nient’altro che uno dei nomi dell’ira, dello stress, declinato però dal lato del soggetto singolo, ha rappresentato il motore al cambiamento che ha spinto gli uomini verso mete improbabili: eticamente secessionisti, ma ontologicamente immanentisti. Potremmo dire che l’osservatore risponde al problema chiamato mondo separandosi e analizzandolo, mentre il praticante metafisico lo nega tramite l’esercizio e costruisce un contro-mondo a suo uso e consumo personale. La politica diviene “essere-insieme-stressante”. Nell'epoca contemporanea, in cui tutte le forme di antropotecnica religiosa sono state messe seriamente in crisi dal post-illuminismo occidentale, restano solo le antropotecniche teoretiche come strumenti di separazione dai collettivi antropotecnico-politici: si estingue la vita politica e divampa quella contemplativa (…) Dopo che la politica si è infiacchita, anzi, è sparita, la teoria penetra nello spazio rimasto vuoto e lo riempie con pretese ideali alle quali la realtà non può mai corrispondere. I pensatori non sono più legati a questa o  a quella comunità, ma si sentono cittadini del mondo intero. Chi riesce a stare ovunque finisce per non partecipare in nessun luogo. Questo mondo è diviso tra coloro che lo fanno/subiscono e coloro che lo analizzano. Tutte le forme eminenti di teoresi sono sopravvissute alla politica. Chi cambia la propria vita, da sempre sono quegli uomini e donne che, dietro allo schermo di un computer o all’oculare di un microscopio, scrivendo una poesia, scattando una foro, girando un film o scrivendo un saggio di filosofia, sospendono se stessi e il proprio mondo, al fine di comprendere e modificare proprio quel mondo. Questi uomini e donne sono coloro che possono formulare, dal loro punto di vista, al contempo interno ed esterno al mondo, l’imperativo assoluto in modo che possa essere compreso, appreso e seguito anche dagli altri uomini, dai non asceti della teoresi.

(tratto da: ESERCIZI PER CAMBIARE LA VITA – IN DIALOGO CON PETER SLOTERDIJK)

TECNICHE DI SOLITUDINE

In che cosa consistono le tecniche di solitudine? Esse si lasciano molto genericamente caratterizzare come “tecniche di raddoppiamento”, come strategie di autopercezione. Chi non viene semplicemente abbandonato da tutti gli uomini, bensì sopravvive, supera e plasma il proprio “abbandono”, inscena un qualche tipo di rapporto con se stesso. Percependo la propria solitudine senza impazzire, si chiude in almeno due forme: come un essere che è solo con se stesso – propriamente – come se fosse in due. Le tecniche di solitudine sono strategie per intraprendere e coltivare le autopercezioni (compresa l’immaginazione di modelli e voci-guida); esse mirano a uno stimolo e a una disciplina dei dialoghi interiori.
“La più grande cosa del mondo è di saper stare con se stessi”, annotava Montaigne.  Gli uomini appartengono a se stessi solo in casi eccezionali. La maggior parte degli uomini non sono e non erano mai stati in grado di imparare o di esercitare l’arte di appartenere a se stessi. Ma chi non appartiene a stesso appartiene a un “altro signore”, è un soggetto eterodeterminato. Le tecniche di solitudine vennero spesso praticate per abrogare una logica specifica del “venire posseduti”, come esercizi di vigilanza interiore, non come tecniche di trance. A differenza di un’etimologia occasionalmente diffusa della parola “solitudine”, che si basa sull’esperienza dell’unità, dell’unio mistica, gli specialisti della solitudine coltivano l’esercizio di una “solitudine a due” controllata, in cui possono entrare in rapporto con se stessi senza essere sopraffatti dalla turba di rappresentazioni o voci interiori.
Vorrei riportare alla memoria la ricchezza delle tecniche della “politica interiore”, di cui fanno parte una serie di esercizi interiori, tra i quali la riflessione sulla propria moralità. Questo corpo di esercizi venne praticato  come un “cambiamento di prospettive” in cui si trattava di considerare se stessi dal punto di vista di un “sé più alto”, come “morti”. Agli esercizi spettava il compito di produrre l’indipendenza degli individui dal mondo esterno e di metterla alla prova. Mentre gli esperti delle tecniche di solitudine antiche si interessavano di un disciplinamento del dialogo con se stessi, di un “confinamento dell’io” prendendo come punto di riferimento il “grande Altro”, gli avanguardisti del XIX e XX secolo, al contrario, si diressero verso uno “sconfinamento” metodicamente controllato degli io. Fra le tecniche di solitudine più antiche si annovera la separazione e l’andarsene o perlomeno l’immaginazione di un altro luogo.
Le tecniche di solitudine sono tecniche eterotopiche. Esse proiettano gli effetti desiderati (o temuti) della solitudine su quel luogo estraneo nel quale siamo soli. La solitudine viene per così dire modellata come “luogo di solitudine”; e la storia delle tecniche di solitudine si lascia perciò sviluppare anche come una storia delle idee dei luoghi di solitudine. Dei luoghi di solitudine fanno parte tutti i luoghi disabitati nei quali gli uomini possono vivere solo malamente. Non di rado sono centri di un “mondo capovolto”. I luoghi di solitudine solitamente si caratterizzano non solo per l’assenza di uomini, ma anche per la loro uniformità e omogeneità: ambienti monotoni in cui si può facilmente perdere la strada. Il luogo di solitudine permette la comparsa più molteplice e variegata di significati e simboli. Scrivere e leggere sono tecniche di solitudine estremamente significative: probabilmente il “grande Altro”, questo “sé superiore” della relazione con se stessi, può venire davvero raggiunto solamente in forma scritta. Nuove rivelazioni necessitano di una alfabetizzazione. Per questo i “grandi altri” non scaturiscono solo dagli esercizi spirituali o dalle meditazioni, ma anche dalle tecniche del leggere e dello scrivere. Le “lettere rivolte a se stessi” producono i “raddoppiamenti” strategici, i “sosia” di ogni confessio: tecniche del sé si relazionano con tecniche mediatiche e viceversa. Colui che legge si scinde in un sé parlante e in un sé che ascolta; e colui che scrive si scinde in un autore e in un destinatario dei suoi testi. Leggere e scrivere sono come un discorso con se stessi.

La civilizzazione è il saper coltivare “la capacità di solitudine”. Essa – come competenza autotecnica – si correla ai rispettivi standard della tecnologia di comunicazione. I “nuovi media” stabiliscono nel frattempo nuovi guardiani e nuovi testimoni nella forma di quelle “macchine che funzionano da doppio materno”, le quali rendono possibile anche alla persona irrimediabilmente muta la rappresentazione del suo essere “in sé” (una nuova epoca di tecniche di solitudine specifiche – dal Game Boy fino al walkman).

(tratto da: ESERCIZI PER CAMBIARE LA VITA – IN DIALOGO CON PETER SLOTERDIJK)

IPERIMMAGINAZIONE

Occorre un cambiamento dei media-guida culturali dalla scrittura alle immagini tecniche; allora i nuovi esercizi spirituali adeguati all’epoca attuale andrebbero cercati nel territorio dell’immaginario tecnico e dei corrispondenti rapporti mentali con esso. Dipenderà quindi da questo lo sviluppo di una forma di pensiero totalmente nuova, entro cui far evolvere i momenti dell’evidenza e dell’immaginazione nel processo cognitivo, in una qualità di pensiero  (iperimmaginazione). In questa pratica non è importante, in prima battuta, la mediazione di teorie o lo scambio di argomentazioni razionali, bensì un’evocazione di coscienza, che eleva l’uditore a un livello non-quotidiano di conoscenza e visione d’insieme. Se si risale alle cause di questo effetto, successivamente si trova dischiuso, al culmine dell’astrazione estrema, uno spazio spirituale fino a questo punto ignoto, una nuova dimensione (nel senso tecnico della parola) del pensare, che è metaforica, immaginativa, senza riferimenti a qualcosa di sensibilmente rappresentabile. Il materiale sensibile di questa nuova evidenza sono piuttosto concetti e teorie costruite a partire da concetti. E’ questa forma di pensiero iperimmaginativa – hyper, che si situa oltre la lingua e la concettualità – che chiarifica la libertà di saltare da una vetta di pensiero della tradizione all’altra e compara e collega le cose più eterogenee. Tale volo di pensiero è possibile dal momento in cui viene scoperto lo spazio che si apre tra vette di pensiero come elemento e medium del pensare (spazio iperimmaginativo).
Le immagini mentali (immagini di pensiero) sono riabilitate a strumenti di conoscenza contro la tradizione del logos: metafore fondamentali che afferrano gli spazi reali e surreali, in cui gli uomini vivono, si aggirano e sono. Il mondo tecnolocizzato in un certo senso è diventato immagine, solo dal fatto che l’immagine entra nel pensiero; o meglio, dal fatto che il pensiero entra nell’immagine.


Ci dobbiamo spostare in primis sul terreno su cui viviamo e moriamo, se non ci facciamo illusioni. Solo dopo che in un certo senso saremo saltati nella radura dell’essere, saremo autenticamente difronte all’albero fiorito, senza  tradirlo come fa il mondo della nostra contemporaneità che, profondamente trasformato dall’esplicazione tecnica, non conosce più alcun suolo su cui sia possibile saltare: ogni salto di pensiero conduce oggi all’abisso. Ciò che è necessario è una radicalizzazione della sospensione del giudizio (epoché), precisamente facendo in modo che non solo si tengano le distanze dal mondo e dalla vita, ma anche da ciò che fino ad oggi è stato il logoro medium di vita e mondo: il linguaggio. E’ necessario un “pensiero che vede”, che è posto “sopra” il discorso, che da esso emerge e che ammette nei suoi tratti una qualità immaginaria, metaforica, di tipo elevato. Immaginaria nel senso di una immagine che significa il concetto. Il pensiero più avanzato deve occuparsi, per così dire, dei processi che danno immagini, per illuminare le forme e i panorami dei concetti, dei discorsi e dei dati in cui navighiamo attraverso una nuova modalità del vedere mentale. Il campo della politica andrebbe indagato con l’aiuto di una teoria del flusso per ciò che concerne le cariche semantiche o i vettori di senso.

(tratto da: ESERCIZI PER CAMBIARE LA VITA – IN DIALOGO CON PETER SLOTERDIJK)

DESERTI TASCABILI

deserti  tascabili sono innanzi tutto dei luoghi fisici,  delle nicchie, sopravvivenze degli antichi ritiri, dove talora il deserto era letterale. Può essere un libro, l’abitacolo dell’auto…se il deserto è diventato una metafora, esso è rimasto un’esperienza di vita, concrete parentesi di personalità cui nessuno davvero rinuncia, neppure il più orizzontalizzato degli uomini.
Noi oggi abitiamo una condizione contraddittoria e paradossale nella quale è necessario esercitare un doppio sguardo che ci permetta di superare l’opposizione tra interno ed esterno senza cancellare né l’uno né l’altro ma senza neppure restare bloccati in nessuno dei due. Sbattiamo il naso contro un muro a causa del quale  il fuori appare invincibilmente contrapposto a un dentro talmente murato da risultare assente o comunque irripetibile.
Nietzche insiste sull'esigenza di esitare, far silenzio, introdurre nel discorso e nel linguaggio l’esercizio della pausa. Continuamente invita a quel processo di lento apprendimento che chiama “ruminazione” e che consiste in un tempo, anche luogo, di attesa, in un rallentamento.  E’ questo, con ogni evidenza, il suo deserto tascabile, la contromanovra che ci propone contro il troppo pieno e gli effetti tossici che esso produce.
Occorre assumere in esercizi quotidiani le buone abitudini di una sopravvivenza comune. Messa a punto di tecniche per abitare la distanza, esercizi di svuotamento per stare dentro le cose senza identificarsi con esse, per convivere con noi stessi senza aderire all'immagine bloccata che la società attuale  ci applica addosso.
Abbiamo tutti il bisogno di far funzionare nelle nostre vite, e nei discorsi attraverso i quali le viviamo come vite pubbliche, un qualche deserto tascabile, esercizi per guadagnare spazio soggettivo, una capacità di costruire pause nel tessuto fitto dei dispositivi che organizzano spazi e tempi del nostro vivere.

Il deserto tascabile è il risultato di un uso delle pause, del rallentamento, della sospensione, della capacità di frapporre distanze  e di abitarle. Non c’è una teoria della parentesi, ma una pratica della spaziatura che immette un effetto di pensosità ogni volta che si viene messi difronte a qualcosa che non ci si aspetta.

(tratto da: ESERCIZI PER CAMBIARE LA VITA – IN DIALOGO CON PETER SLOTERDIJK)

L’ESERCIZIO COME CONDIZIONE DI POSSIBILITÀ’ DEL SOGGETTO (E DELLA SUA SPARIZIONE)

Per capire cosa possiamo conoscere bisogna anche chiedersi di cosa  sia capace il soggetto che conosce. Per alcuni è più che sufficiente chiedersi come è fatto il soggetto. Il soggetto è sì fondamentale, ma non per questo fonda alcunché.
Il soggetto si costituisce confrontandosi con quella rete di discorsi che descrivono, classificano, studiano e, direttamente o indirettamente, guidano le pratiche individuali e collettive. La verità che può dire su di sé, quindi, va non solo conquistata attraverso una chiarificazione intellettuale, ma va anche strappata alle istanze di potere che hanno il compito di gestire la circolazione di quegli stessi discorsi.
L’esercizio diviene condizione di possibilità della soggettivizzazione. C’è soggetto solo là dove si lascia osservare quel movimento che porta un organismo capace di porsi obiettivi a raggiungere questi ultimi secondo modalità, tempi e pratiche specifiche. Soggetto, dunque, è il portatore di sequenze di esercizi, e la soggettività si configura come portatrice delle proprie sequenze di attività, come praticante di moduli allenabili e come titolare delle proprie acquisizioni abituali. Ora, dire esercizio significa anche dire libertà di scegliere sia il tipo di esercizi che si ha in mente di effettuare, sia l’allenatore cui rivolgersi. Senza dubbio tale libertà va sempre presupposta.
Essendo l’uomo un animale neotenico, non è difficile immaginare uno scenario in cui qualcuno decide per noi quali esercizi dobbiamo fare e quali no. Siamo quel che siamo perché abitiamo parchi umani in cui altri hanno deciso di quali esercizi abbiamo bisogno. Quanto governo siamo disposti ad accettare?  Nella società contemporanea più che attraverso la disciplina e il controllo diretto, i processi di soggettivizzazione sono sottoposti a varie forme di governo indiretto, giustificate semplicemente dalla volontà di applicare i criteri di efficienza che guidano la prassi economica a tutte le sfere di esigenza. Quanto margine di manovra resta al soggetto esercitante, una volta preso atto di questo governo a distanza, di questa accettazione spesso acritica dell’imperativo dell’efficienza? La sola forma di realizzazione del sé passa, per Sloterdijk, dalle ottimizzazioni che applichiamo direttamente a noi stessi. Ritirandosi dalle faccende mondane, l’asceta contemporaneo non abita più i deserti, ma deve crearne di artificiali ovunque si trovi, correndo i rischi che corre chiunque aspiri a ritirarsi in solitudine.

Per Sloterdijk, diventare soggetti significa venire al mondo, e, col tempo, venire a capo di ciò che significa essere venuti al mondo. Alla rinuncia a tornare nell’accogliente ventre materno si accompagna un’irriducibile voglia di deserto, di uscita dal mondo: un desiderio di sparizione. Si tratta, piuttosto, di uscire dalla percezione ordinaria della realtà, ingenuamente realista, che presuppone come ovvia e non ulteriormente indagabile una serie di coppie oppositive come presenza e assenza, essere e nulla, razionale e irrazionale, coerente e contraddittorio, materia e mente. Si tratta di avvicinarsi ad un universo schiumoso (così definito da Sloterdijk) in cui dimora una soggettività ontologicamente distribuita lungo una pluralità di centri soggettivi che sanno di essere in comunicazione tra loro solo se guardano al proprio reciproco relazionarsi dalla prospettiva impossibile di uno sguardo da nessun luogo.

(tratto da: ESERCIZI PER CAMBIARE LA VITA – IN DIALOGO CON PETER SLOTERDIJK)

CORSI E RICORSI

Nello specchio c’è una figura lontana dall'immagine che ho, la inghiotte, la trascina lontano. Non è terra quella sotto i piedi, ma una corda sottile su cui cammino. Non c’è modo di fermarsi, perché così ha scritto la natura per me. Il vuoto al di sotto si fa grande, un interminabile zoom al contrario. Lo spazio d’un tratto affamato, inghiotte. La fune si tende, oscilla. Vacillo.  

INTROVERSA E FELICE

Risultati immagini per ida tentoliniSto bene così, nei miei silenzi, nei miei spazi rubati, sola e piena. Normale e felice, grata.
Non c'è malattia e nemmeno tristezza. Solo bellezza, contemplazione del bello, intimo rapporto col mondo, orecchio teso alle verità sussurrate, prorompenti nei colori, nei profumi.
A chi amo vorrei che arrivasse almeno un poco di questa beatitudine, di questa autentica gioia. 
Regalatevi del tempo per ascoltare voi stessi. Parlatevi, scrivetevi, corteggiatevi, nutritevi...anche per poco ogni giorno, ma fatelo! 
Sane carezze che non rubano tempo; ne restituiscono un poco di quello che lasciamo portarci via da luci abbaglianti e voci urlanti.

COSCIENZA E CONSAPEVOLEZZA

Io credo che esista una forma trascendente di coscienza, che non ha nulla a che fare con ricompense e punizioni.

L’educazione andrebbe considerata come educazione della consapevolezza, e non solo come l’insegnamento delle varie professioni.
(O. Sacks)

UMANO

E penso...che non raggiungo
A quanto vorrei posare i miei piedi
Sterrati, Trafitta dall'aria perfetta
Oltre  tempo
Ho letto d'umani confini
sfidati e veri
Umani
Vita, Visioni.
D'umani esseri
di genere di poca importanza, per me,
Di grande spessore, per me.
Umani, di vita infarciti
Cuciti sventrati composti
Umani.

IL SEGRETO

Risultati immagini per SEGRETO DIPINTIE’ importante avere un segreto, una premonizione di cose sconosciute. Riempie la vita di qualcosa di impersonale, di un numinosum. Chi non ha mai fatto questa esperienza ha perduto qualcosa di importante. L’uomo deve sentire che vive in un mondo che, per certi aspetti, è misterioso; che in esso avvengono e si sperimentano cose che restano inesplicabili, e non solo quelle che accadono nell'ambito di ciò che ci si attende. L’inatteso e l’inaudito appartengono a questo mondo. Per me, fin dal principio, il mondo è stato infinito e inafferrabile.
(Jung - Ricordi,Sogni,Riflessioni)

DEMONI?

Risultati immagini per I GIGANTI BIBBIALa nostra età ha posto il più possibile l’accento sull'uomo in questo mondo, effettuando così una demonizzazione dell’uomo e del mondo.
(Jung)

IO NON SONO IL MIO LAVORO

Risultati immagini per LA SOCIETA' DELLA STANCHEZZAOggi viviamo nell'illusione di essere liberi, ma non lo siamo affatto: vediamo infatti come la comunicazione, che si presenta come libertà, si rovescia in controllo. Comunicazione e trasparenza producono anche una costrizione al conformismo: oggi crediamo di non essere soggetti sottomessi ma liberi, crediamo di essere un progetto che si delinea in maniera sempre nuova, che si reinventa e si ottimizza. Il problema è che questo progetto, nel quale il soggetto sottomesso si libera, si rivela esso stesso una figura della costrizione. L’io come progetto sviluppa delle costrizioni interiori, per esempio nella forma della prestazione e dell’ottimizzazione sempre maggiori. Oggi viviamo in una fase storica particolare, nella quale la stessa libertà implica costrizioni. (…) Attraverso il lavoro si viene alienati dal mondo e da se stessi: per questo ho sostenuto che il lavoro è una de-realizzazione del Sé. Oggi il lavoro assume la forma della libertà e dell’auto-realizzazione. Sfrutto me stesso nella convinzione di realizzarmi. Il sentimento dell’alienazione, qui, non sorge; così, questo è anche il primo stadio dell’euforia da burnout. Mi butto entusiasticamente nel lavoro, fino a esserne annientato: mi realizzo morendo. Mi ottimizzo nella morte. Mi sfrutto volontariamente, fino a distruggermi. Questo auto-sfruttamento è più efficace dello sfruttamento estraneo di Marx, proprio perché procede insieme al sentimento della libertà. Il dominio neoliberale si nasconde dietro la libertà percepita: si dà, anzi, esso stesso come libertà. Il dominio raggiunge la forma più stabile laddove coincide con la libertà. L’odierna società non è la società della repressione, anche se la fine della repressione non implica la libertà. Oggigiorno, piuttosto, noi siamo depressi: la società della repressione cede il passo alla società della depressione.

PROBLEMA

Il significato della mia esistenza è che la vita mi ha posto un problema. O, viceversa, io stesso rappresento un problema che è stato posto al mondo, e devo dare la mia risposta, perché altrimenti mi devo contentare della risposta del mondo.
(Jung)

VERBO

La mancanza di significato impedisce la pienezza della vita, ed è pertanto equivalente alla malattia. Il significato rende molte cose sopportabili, forse tutto. Nessuna scienza sostituirà mai il mito. Non “Dio” è un mito, ma il mito è la rivelazione divina nell’uomo. Non siamo noi a inventare il mito, ma esso parla  a noi come “verbo di Dio”. Il "verbo di Dio” viene a noi, e non abbiamo modo di distinguere se, e in che modo, si differenzia da Dio. Non vi è nulla in questo “Verbo” che non possa essere considerato noto e umano, tranne il modo col quale spontaneamente  ci sollecita e ci costringe. Sfugge al nostro arbitrio. Non si può spiegare una “ispirazione”: sappiamo solo che una “trovata” non è il risultato del nostro raziocinio, ma che ci viene “da qualche altra parte”. Il “Verbo” viene a noi; noi lo subiamo, perché siamo preda di una profonda incertezza: con un Dio che è complexio oppositorum “tutto è possibile”, nel significato più pieno dell’espressione: la verità e l’inganno, il male e il bene. Non possiamo e non dobbiamo rinunciare a far uso della ragione; e neppure dobbiamo abbandonare la speranza che ci soccorra l’istinto – nel quale caso un Dio ci sostiene contro Dio. Tutto ciò attraverso cui si esprime l’”altra volontà” è materia formata dall'uomo, il suo pensiero, le sue parole, le sue immagini, e tutte le sue limitazioni. Di conseguenza egli ha la tendenza a riferire ogni cosa a se stesso,  (...),  e crede che tutto derivi dalle sue intenzioni e da “lui stesso”. Con infantile ingenuità presume di conoscere tutti  i propri poteri e di sapere che cosa è “in sé”. Pure fatalmente egli è messo in difficoltà dalla debolezza della sua coscienza e dalla corrispondente paura dell’inconscio, e pertanto è letteralmente incapace di distinguere ciò che egli ha pazientemente ricavato col ragionamento da ciò che spontaneamente gli è  venuto da un’altra fonte. Non ha oggettività  difronte a se stesso e non è ancora capace di considerarsi come un fenomeno che si trova davanti e rispetto al quale for better or worse egli è identico. Da principio tutto gli è dato, tutto dipende da lui, tutto gli accade ed è solo con grande sforzo che alla fine riesce a conquistarsi e a mantenere una sfera di relativa libertà.
Solo quando è assicurato tale conquista, solo allora, è in condizione di poter riconoscere che si trova di fronte alle sue fondamenta, ai suoi principi – involontari, perché gli sono stati dati – che egli non può sopprimere. I suoi principi (…) vivono in lui come il costante substrato della sua esistenza, plasmandone la coscienza almeno tanto quanto il mondo fisico che lo circonda.

(Jung)