SYLVIA PLATH

L'aspirante

Prima di tutto ce li hai i requisiti?
Ce l'hai
un occhio di vetro, denti finti o una gruccia,
un tirante o un uncino,
seni di gomma, inguine di gomma,

rattoppi a qualcosa che manca? Ah
no? E allora che mai possiamo darti?
Smetti di piangere.
Apri la mano.
Vuota? Vuota. Ma ecco una mano

che la riempie, disposta
a porgere tazze di tè e sgominare emicranie,
e a fare ogni cosa che gli dirai.
La vorresti sposare?
È garantita,

ti tapperà gli occhi alla fine della vita
e del dolore.
Con quel sale ci rinnoviamo le scorte.
Vedo che sei nuda come un verme.
Che te ne pare di questo vestito-

Un po' rigido e nero, ma niente male.
Lo vorresti sposare?
È impermeabile, infrantumabile, abile
contro il fuoco e imbombardabile.
Credi a me, ti ci farai sotterrare.

E adesso, scusa, hai vuota la testa.
Ho la cosa che fa per te.
Su, su, carina, esci fuori dal guscio.
Ecco ti piace questa?
Nuda per cominciare come una pagina bianca

ma in venticinqu'anni d'argento,
d'oro in cinquanta, potrà diventare.
Una bambola viva, sotto ogni aspetto.
Sa cucire, sa cucinare,
sa parlare, parlare, parlare.

E funziona, non ha una magagna.
Qua c'è un buco, che è una manna.
Qua un occhio, una vera visione.
Ragazzo mio, è l'ultima occasione.
La vorresti sposare, sposare, sposare?



Lady Lazarus

L'ho rifatto.
Un anno ogni dieci
Ci riesco -
Una specie di miracolo ambulante, la mia pelle
Splendente come un paralume Nazi,
Un fermacarte il mio
Piede destro,
La mia faccia un anonimo, perfetto
Lino ebraico.
Via il drappo,
o mio nemico!
Faccio forse paura? -
Il naso, le occhiaie, la chiostra dei denti?
Il fiato puzzolente
In un giorno svanirà.
Presto, ben presto la carne
Che il sepolcro ha mangiato si sarà
Abituata a me
e io sarò una donna che sorride.
Non ho che trent'anni.
E come il gatto ho nove vite da morire.
Questa è la numero tre.
Quale ciarpame
Da far fuori ogni decennio.
Che miriade di filamenti.
La folla sgranocchiante noccioline
Si accalca per vedere
Che mi sbendano mano e piede -
Il grande spogliarello.
Signori e signore, ecco qui
Le mie mani,
i miei ginocchi.
Sarò anche pelle e ossa,
Ma pure sono la stessa identica donna.
La prima volta successe che avevo dieci anni.
Fu un incidente.
Ma la seconda volta ero decisa
a insistere, a non recedere assolutamente.
Mi dondolavo chiusa
Come conchiglia.
Dovettero chiamare e chiamare
e staccarmi via i vermi come perle appiccicose.
Morire
è un'arte, come ogni altra cosa.
Io lo faccio in modo eccezionale.
Io lo faccio che sembra come inferno.
Io lo faccio che sembra reale.
Ammettete che ho la vocazione.
È facile abbastanza da farlo in una cella.
È facile abbastanza farlo e starsene lì.
È il teatrale
Ritorno in pieno giorno
a un posto uguale, uguale viso, uguale
Urlo divertito e animale:
"Miracolo!"
È questo che mi ammazza.
C'è un prezzo da pagare
Per spiare
Le mie cicatrici, per auscultare
Il mio cuore - eh sì, batte.
E c'è un prezzo, un prezzo molto caro,
Per una toccatina, una parola,
o un po' del mio sangue
o di capelli o un filo dei miei vestiti.
Eh sì, Herr Doktor.
Eh sì, Herr Nemico.
Sono il vostro opus magnum.
Sono il vostro gioiello,
Creatura d'oro puro
Che a uno strillo si liquefà.
Io mi rigiro e brucio.
Non crediate che io sottovaluti le vostre ansietà.
Cenere, cenere -
Voi attizzate e frugate.
Carne, ossa, non ne trovate -
Un pezzo di sapone,
Una fede nuziale,
Una protesi dentale.
Herr Dio, Herr Lucifero,
Attento.
Attento.
Dalla cenere io rivengo
Con le mie rosse chiome
e mangio uomini come aria di vento.



Pecore nella nebbia

Le colline digradano nel bianco.
Persone o stelle mi guardano con tristezza, le deludo.

Il treno lascia dietro una linea di fiato.
Oh lento cavallo color della ruggine, zoccoli, dolorose campane.

È tutta la mattina che
la mattina sta annerendo, un fiore lasciato fuori.

Le mie ossa racchiudono un'immobilità, i campi
lontani mi sciolgono il cuore.

Minacciano
di lasciarmi entrare in un cielo
senza stelle né padre, un'acqua scura.



Papà

Non servi, non servi
Non più, nera scarpa,
come un piede vi ho vissuto
Per trent’anni, gramo e bianco,
Trattenendo fiato e starnuto.

Papà, ammazzarti avrei dovuto,
Tirasti le cuoia prima che ci riuscissi.
Tu, fardello imbottito di Dio, marmo cocciuto,
Orrenda statua dall’alluce tristo
Grosso come una foca di Frisco.


Le nevi del Tirolo, la chiara birra di Vienna
Non sono tanto pure o sincere
Con la mia ava zingara ed un destino pazzo
Di tarocchi ho un mazzo di tarocchi ho un mazzo
Qualcosa di giudeo potrei avere

Ho sempre avuto terrore di te,
Della tua Luftwaffe, del tuo gregregré.
E il tuo baffo ben curato
E l’occhio ariano rifulgente blu.
Uomo-panzer, uomo-panzer, O Tu -

Non un Dio ma una svastica nera
Così che nessun cielo vi trapela.
Ogni donna adora un fascista,
Uno scarpone sulla faccia, un brutale
Un cuore inumano, uno a te eguale.

Stai alla lavagna, papà,
Nella foto che ho di te,
Biforcuto nel mento, piuttosto che nel pié
Ma non meno diabolico per questo, oh già
E non meno uomo nero che

Azzanna il mio piccolo cuore facendolo in due.
Avevo dieci anni allorché sotterrarono te.
E a venti cercai di morire
Per tornare, tornare, tornare da te.
Pensavo che le ossa servissero, perfino le tue.


Nel tuo cuore grasso e nero c’è un paletto
Ai paesani nemmeno piacevi.
Ora ti pestano, sopra di te fanno un balletto.
Chi eri hanno sempre capito.
Papà, papà, bastardo, ho finito.



Monologo delle 3 del mattino

È meglio che ogni fibra si spezzi
e vinca la furia,
e il sangue vivo inzuppi
divano, tappeto, pavimento
e l’almanacco decorato con serpenti
testimone che tu sei
a un milione di verdi contee da qui,
che sedere muti, con questi spasmi
sotto stelle pungenti,
maledicendo, l’occhio sbarrato
annerendo il momento
che gli addii vennero detti, e si lasciarono partire i treni,
ed io, gran magnanimo imbecille, così strappato
dal mio solo regno



Pungiglioni

Ci sarà dentro davvero una regina?

Se c’è, è vecchia,le sue ali laceri scialli, il lungo corpo
spoglio del suo velluto-
povera e nuda e assai poco regale e perfino indecorosa.
Sono in una colonna

di donne alate non miracolose,
sguattere del miele.
Io non sono una sguattera,
anche se ho mangiato polvere per anni
e asciugato i piatti con i miei folti capelli.

E ho visto evaporare la mia stranezza,
rugiada azzurra da una pelle pericolosa.
Mi odieranno,
queste donne che sanno solo correre su e giù,
le cui novità sono il ciliegio in fiore, il trifoglio in fiore?



Orlo

La donna è infine perfetta.
Il suo corpo
Morto porta il sorriso del compimento
L’illusione di una greca necessità
Fluisce, nelle pieghe della sua toga,
I suoi piedi
Nudi sembrano dire:
Abbiamo camminato tanto, è finita.
Ogni bimbo morto, riavvolto, bianco serpente
Uno ad ogni piccola
Brocca di latte, ora vuota
Li ha piegati
Di nuovo nel corpo di lei come petali
Di una rosa si chiudono quando il giardino
S’intorpidisce e odori sanguinano
Dalle dolci, profonde gole del fiore notturno.
La luna non ha nulla di cui essere triste,
fissando dal suo cappuccio di osso
è abituata a questo tipo di cose.
Le sue macchie nere crepitano e tirano.


Sono verticale

Ma preferirei essere orizzontale.
Non sono un albero con radici nel suolo
succhiante minerali e amore materno
così da poter brillare di foglie a ogni marzo,
né sono la beltà di un’aiuola
ultradipinta che susciti grida di meraviglia,
senza sapere che presto dovrò perdere i miei petali.
Confronto a me, un albero è immortale
e la cima di un fiore, non alta, ma più clamorosa:
dell’uno la lunga vita, dell’altra mi manca l’audacia.

Stasera, all’infinitesimo lume delle stelle,
alberi e fiori hanno sparso i loro freddi profumi.
Ci passo in mezzo ma nessuno di loro ne fa caso.
A volte io penso che mentre dormo
forse assomiglio a loro nel modo più perfetto -
con i miei pensieri andati in nebbia.
Stare sdraiata è per me più naturale.
Allora il cielo ed io siamo in aperto colloquio,
e sarò utile il giorno che resto sdraiata per sempre:
finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me.

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