MONTALE

A galla

Chiari mattini,
quando l'azzurro è inganno che non illude,
crescere immenso di vita,
fiumana che non ha ripe né sfocio
e va per sempre,
e sta - infinitamente.

Sono allora i rumori delle strade
l'incrinatura nel vetro
o la pietra che cade
nello specchio del lago e lo corrùga.
E il vocìo dei ragazzi
e il chiacchiericcio liquido dei passeri
che tra le gronde svolano
sono tralicci d'oro
su un fondo vivo di cobalto,
effimeri...

Ecco, è perduto nella rete di echi,
nel soffio di pruina
che discende sugli alberi sfoltiti
e ne deriva un murmure
d'irrequieta marina,
tu quasi vorresti, e ne tremi,
intento cuore disfarti,
non pulsar più! Ma sempre che lo invochi,
più netto batti come
orologio traudito in una stanza
d'albergo al primo rompere dell'aurora.
E senti allora,
se pure ti ripetono che puoi
fermarti a mezza via o in alto mare,
che non c'è sosta per noi,
ma strada, ancora strada,

e che il cammino è sempre da ricominciare.





Che mastice tiene insieme

Che mastice tiene insieme
questi quattro sassi.
Penso agli angeli
sparsi qua e là
inosservati
non pennuti non formati
neppure occhiuti
anzi ignari
della loro parvenza
e della nostra
anche se sono
un contrappeso più forte
del punto di Archimede
e se nessuno li vede
è perché occorrono altri occhi
che non ho
e non desidero.


La verità è sulla terra
e questa non può saperla
non può volerla
a patto di distruggersi.

Così bisogna fingere
che qualcosa sia qui
tra i piedi tra le mani
non atto né passato
né futuro
e meno ancora un muro
da varcare
bisogna fingere
che movimento e stasi
abbiano il senso
del nonsenso
per comprendere
che il punto fermo è un tutto
nientificato.



Felicità raggiunta, si cammina

Felicità raggiunta, si cammina
per te sul fil di lama.
Agli occhi sei barlume che vacilla,
al piede, teso ghiaccio che s'incrina;
e dunque non ti tocchi chi più t'ama.


Se giungi sulle anime invase
di tristezza e le schiari, il tuo mattino
è dolce e turbatore come i nidi delle cimase.
Ma nulla paga il pianto del bambino
a cui fugge il pallone tra le case.


Gli uomini che si voltano


Probabilmente
non sei più chi sei stata
ed è giusto che così sia.
Hai raschiato a dovere la carta a vetro
e su noi ogni linea si assottiglia.
Pure qualcosa fu scritto
sui fogli della nostra vita.
Metterli controluce è ingigantire quel segno,
formare un geroglifico più grande del diadema
che ti abbagliava.
Non apparirai più dal portello
dell'aliscafo o da fondali d'alghe,
sommozzatrice di fangose rapide
per dare un senso al nulla. Scenderai
sulle scale automatiche dei templi di Mercurio
tra cadaveri in maschera,
tu la sola vivente,
e non ti chiederai
se fu inganno, fu scelta, fu comunicazione
e chi di noi fosse il centro
a cui si tira con l'arco dal baraccone.
Non me lo chiedo neanch'io. Sono colui
che ha veduto un istante e tanto basta
a chi cammina incolonnato come ora
avviene a noi se siamo ancora in vita
o era un inganno crederlo. Si slitta.




Hai dato il mio nome ad un albero? Non è poco


Hai dato il mio nome ad un albero? Non è poco
pure non mi rassegno a restar ombra, o tronco
di un abbandono nel suburbio. Io il tuo
l'ho dato a un fiume, a un lungo incendio, al crudo
gioco della mia sorte, alla fiducia
sovrumana con cui parlasti al rospo
uscito dalla fogna, senza orrore o pietà
o tripudio, al respiro di quel forte
e morbido tuo labbro che riesce,
nominando, a creare; rospo fiore erba scoglio -
quercia pronta a spiegarsi su di noi
quando la pioggia spollina i carnosi
petali del trifoglio e il fuoco cresce.




Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.


Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr'occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.



Meriggiare pallido e assorto

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d' orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch' ora si rompono ed ora s'intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com'è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.




Nessun commento:

Posta un commento