Il soggetto si costituisce confrontandosi con quella rete di
discorsi che descrivono, classificano, studiano e, direttamente o
indirettamente, guidano le pratiche individuali e collettive. La verità che può
dire su di sé, quindi, va non solo conquistata attraverso una chiarificazione
intellettuale, ma va anche strappata alle istanze di potere che hanno il
compito di gestire la circolazione di quegli stessi discorsi.
L’esercizio diviene condizione di possibilità della
soggettivizzazione. C’è soggetto solo là dove si lascia osservare quel
movimento che porta un organismo capace di porsi obiettivi a raggiungere questi
ultimi secondo modalità, tempi e pratiche specifiche. Soggetto, dunque, è il
portatore di sequenze di esercizi, e la soggettività si configura come
portatrice delle proprie sequenze di attività, come praticante di moduli
allenabili e come titolare delle proprie acquisizioni abituali. Ora, dire esercizio
significa anche dire libertà di scegliere sia il tipo di esercizi che si ha in
mente di effettuare, sia l’allenatore cui rivolgersi. Senza dubbio tale libertà
va sempre presupposta.
Essendo l’uomo un animale neotenico, non è difficile
immaginare uno scenario in cui qualcuno decide per noi quali esercizi dobbiamo
fare e quali no. Siamo quel che siamo perché abitiamo parchi umani in cui altri
hanno deciso di quali esercizi abbiamo bisogno. Quanto governo siamo disposti
ad accettare? Nella società
contemporanea più che attraverso la disciplina e il controllo diretto, i
processi di soggettivizzazione sono sottoposti a varie forme di governo
indiretto, giustificate semplicemente dalla volontà di applicare i criteri di
efficienza che guidano la prassi economica a tutte le sfere di esigenza. Quanto
margine di manovra resta al soggetto esercitante, una volta preso atto di
questo governo a distanza, di questa accettazione spesso acritica dell’imperativo
dell’efficienza? La sola forma di realizzazione del sé passa, per Sloterdijk,
dalle ottimizzazioni che applichiamo direttamente a noi stessi. Ritirandosi dalle
faccende mondane, l’asceta contemporaneo non abita più i deserti, ma deve
crearne di artificiali ovunque si trovi, correndo i rischi che corre chiunque
aspiri a ritirarsi in solitudine.
Per Sloterdijk, diventare soggetti significa venire al
mondo, e, col tempo, venire a capo di ciò che significa essere venuti al mondo.
Alla rinuncia a tornare nell’accogliente ventre materno si accompagna un’irriducibile
voglia di deserto, di uscita dal mondo: un desiderio di sparizione. Si tratta,
piuttosto, di uscire dalla percezione ordinaria della realtà, ingenuamente
realista, che presuppone come ovvia e non ulteriormente indagabile una serie di
coppie oppositive come presenza e assenza, essere e nulla, razionale e
irrazionale, coerente e contraddittorio, materia e mente. Si tratta di
avvicinarsi ad un universo schiumoso (così definito da Sloterdijk) in cui
dimora una soggettività ontologicamente distribuita lungo una pluralità di
centri soggettivi che sanno di essere in comunicazione tra loro solo se
guardano al proprio reciproco relazionarsi dalla prospettiva impossibile di uno
sguardo da nessun luogo.
(tratto da: ESERCIZI PER CAMBIARE LA VITA – IN DIALOGO CON PETER SLOTERDIJK)
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