“La più grande cosa del mondo è di saper stare con se
stessi”, annotava Montaigne. Gli uomini
appartengono a se stessi solo in casi eccezionali. La maggior parte degli
uomini non sono e non erano mai stati in grado di imparare o di esercitare
l’arte di appartenere a se stessi. Ma chi non appartiene a stesso appartiene a
un “altro signore”, è un soggetto eterodeterminato. Le tecniche di solitudine
vennero spesso praticate per abrogare una logica specifica del “venire
posseduti”, come esercizi di vigilanza interiore, non come tecniche di trance.
A differenza di un’etimologia occasionalmente diffusa della parola
“solitudine”, che si basa sull’esperienza dell’unità, dell’unio mistica, gli specialisti della solitudine coltivano l’esercizio
di una “solitudine a due” controllata, in cui possono entrare in rapporto con
se stessi senza essere sopraffatti dalla turba di rappresentazioni o voci
interiori.
Vorrei riportare alla memoria la ricchezza delle tecniche
della “politica interiore”, di cui fanno parte una serie di esercizi interiori,
tra i quali la riflessione sulla propria moralità. Questo corpo di esercizi
venne praticato come un “cambiamento di
prospettive” in cui si trattava di considerare se stessi dal punto di vista di
un “sé più alto”, come “morti”. Agli esercizi spettava il compito di produrre
l’indipendenza degli individui dal mondo esterno e di metterla alla prova.
Mentre gli esperti delle tecniche di solitudine antiche si interessavano di un
disciplinamento del dialogo con se stessi, di un “confinamento dell’io”
prendendo come punto di riferimento il “grande Altro”, gli avanguardisti del
XIX e XX secolo, al contrario, si diressero verso uno “sconfinamento”
metodicamente controllato degli io. Fra le tecniche di solitudine più antiche
si annovera la separazione e l’andarsene o perlomeno l’immaginazione di un
altro luogo.
Le tecniche di solitudine sono tecniche eterotopiche. Esse
proiettano gli effetti desiderati (o temuti) della solitudine su quel luogo
estraneo nel quale siamo soli. La solitudine viene per così dire modellata come
“luogo di solitudine”; e la storia delle tecniche di solitudine si lascia
perciò sviluppare anche come una storia delle idee dei luoghi di solitudine.
Dei luoghi di solitudine fanno parte tutti i luoghi disabitati nei quali gli
uomini possono vivere solo malamente. Non di rado sono centri di un “mondo
capovolto”. I luoghi di solitudine solitamente si caratterizzano non solo per
l’assenza di uomini, ma anche per la loro uniformità e omogeneità: ambienti
monotoni in cui si può facilmente perdere la strada. Il luogo di solitudine
permette la comparsa più molteplice e variegata di significati e simboli.
Scrivere e leggere sono tecniche di solitudine estremamente significative:
probabilmente il “grande Altro”, questo “sé superiore” della relazione con se
stessi, può venire davvero raggiunto solamente in forma scritta. Nuove
rivelazioni necessitano di una alfabetizzazione. Per questo i “grandi altri”
non scaturiscono solo dagli esercizi spirituali o dalle meditazioni, ma anche
dalle tecniche del leggere e dello scrivere. Le “lettere rivolte a se stessi”
producono i “raddoppiamenti” strategici, i “sosia” di ogni confessio: tecniche del sé si relazionano con tecniche mediatiche e
viceversa. Colui che legge si scinde in un sé parlante e in un sé che ascolta;
e colui che scrive si scinde in un autore e in un destinatario dei suoi testi.
Leggere e scrivere sono come un discorso con se stessi.
La civilizzazione è il saper coltivare “la capacità di
solitudine”. Essa – come competenza autotecnica – si correla ai rispettivi
standard della tecnologia di comunicazione. I “nuovi media” stabiliscono nel
frattempo nuovi guardiani e nuovi testimoni nella forma di quelle “macchine che
funzionano da doppio materno”, le quali rendono possibile anche alla persona
irrimediabilmente muta la rappresentazione del suo essere “in sé” (una nuova
epoca di tecniche di solitudine specifiche – dal Game Boy fino al walkman).
(tratto da: ESERCIZI PER CAMBIARE LA VITA – IN DIALOGO CON PETER SLOTERDIJK)
(tratto da: ESERCIZI PER CAMBIARE LA VITA – IN DIALOGO CON PETER SLOTERDIJK)
la solitudine è la negazione della pluralità. Occorre però dire che essa è vivificante solo dopo il confronto, l'acquisizione di elementi che ci interessano o a latere di essi. Se così non fosse essa è rinuncia al mondo che ci circonda e porta inevitabilmente alla depressione salvo che il soggetto definisca una ricerca.
RispondiEliminanoi veniamo dalla pluralità ed essa non può essere mai negata neanche volendolo.il problema posto è come individuarsi e diventare moltitudine anzichè popolo.
RispondiEliminaSono comunque riflessioni interessanti che inducono a ripensare e a ripensarci. Un po' tornare a noi stessi per aprirsi agli altri. Direi esercizio di ascolto.
RispondiEliminaGrazie del commento.
luhmann nella teoria dei sistemi dice che solo un sistema chiuso può aprirsi.
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