Nell’atto dello scrivere
si situa il dialogo con me stessa, un luogo anche fisico, dove costruisco un mio
tempo ed un mio tavolo da lavoro.
Ho bisogno di capovolgere
il vecchio mito che continua a presentare il linguaggio come lo strumento di un
pensiero, di un’interiorità, di una passione o non so cos’altro, e la
scrittura, di conseguenza, come una semplice pratica strumentale.
La via da seguire è
quella di capire che, gesti sentiti da noi molto laici e futili, come la
scrittura, sono in realtà pesantemente caricati di senso. Pertanto mi sforzo di
individuare ‘regole’ o ‘protocolli’ di lavoro, che predeterminano quello che
vado a costruire.
È importante distinguere
le diverse coordinate: tempo di lavoro, specie di lavoro e gesto in sé della
scrittura. L’etimologia di protocollo è chiara: significa il primo foglio che
si incolla preliminarmente all’opera.
La Scrittura è fatta di
gesti e organizzazione degli spazi:
- Rapporto con gli
strumenti: penna a sfera, fogli a righe, rilegatura con anelli (che dà fluidità
al gesto di girare i fogli e maggiore fisicità nel tenere il quaderno fra le
mani)
- Due stadi nel processo
di creazione: il primo è il momento in cui il desiderio investe la pulsione
grafica; il secondo è Il momento critico. Prima scrivo tutto l’intero testo a
penna, poi lo riprendo da capo a fondo, attraverso la scrittura con tastiera.
- Organizzazione dello
spazio di lavoro e individuazione dello spazio laborioso abituale.
Il luogo in cui produco
(tutti i giorni dalle 06.40 alle 07.00); questo tempo regolare, che fa da
funzionario della scrittura, mi va meglio del tempo aleatorio che presuppone
uno stato di continua eccitazione. Si situa nel divano del mio salotto, con la luce
del mattino alle spalle che illumina il foglio (quaderno a righe con rilegatura
ad anelli). Si completa con un luogo di musica (ogni domenica mattina dalle
08.00 alle 09.30/10.00 vado a camminare, ascoltando musica di ogni tipo).
Esistono anche microluoghi
funzionali, fatti di brevi spazi ricavati random durante la giornata, dove faccio letture avide alla ricerca di
nuovi punti vista illuminanti, letture in cui l’eccitazione scaturisce dal
contatto immediato e fenomenologico con il testo. La gestione avviene per schede.
Mi accontento di leggere il testo in questione, e in maniera abbastanza feticistica:
annotando certi passi, certi momenti, meglio certe parole che hanno il potere
di esaltarmi. Via via copio e incollo sulle mie schede sia delle citazioni, sia
delle idee mie, e questo, curiosamente, già in un ritmo di frase, in maniera
che, sin da questo momento, le cose prendono già un’esistenza di scrittura.
Dopodiché, una seconda
lettura non è indispensabile. Immersa in una sorta di stato maniacale, so che tutto
quello che leggerò, lo ricondurrò inevitabilmente al mio lavoro.
Le letture avvengono
generalmente quando so di non essere disturbata o quando so di riuscire ad
isolarmi dal resto, sul divano o sul balcone di casa – a seconda della stagione
– o in altri luoghi.
Il mio intento è togliermi
dall’angoscia del lettore, e rinforzare la parte critica, facendo vacillare la
nozione stessa di ‘soggetto’ di uno scritto. Ma attenzione: se, sempre più,
tendo a produrre i miei testi a frammenti, non per questo ho rinunciato a ogni
costruzione. Quando si sostituisce il caso alla logica, bisogna vigilare perché
questo, a sua volta, non diventi meccanico. Personalmente procedo secondo un
metodo che chiamerei ‘l’accidente
controllato’. Il caso interviene solo attraverso un primo gesto di costruzione,
che consiste nel dare un titolo a ogni frammento e ad evidenziare i punti
salienti del discorso.
Le due operazioni di
scrittura che mi procurano il piacere più acuto sono, primo, iniziare, secondo,
continuare: ho optato (provvisoriamente)
a favore della scrittura discontinua proprio per moltiplicare a me stessa questo piacere.
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