C'ERA UNA VOLTA

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Più di cent’anni fa Lev Tolstoj sosteneva che la narrazione è un’infezione, che le storie ci infettano con le loro speranze e loro paure e che più una storia è bella, più è grave l’infezione. Esattamente dopo 186 anni dalla sua nascita, le neuroscienze sono in grado di chiarire il ruolo che i racconti svolgono sulla mente umana e all’interno delle società. Grazie alla loro estrema versatilità, l’uomo (solo animale capace di emozionarsi di fronte a informazioni slegate dal “qui ed ora”) ha l’occasione di accrescere le proprie competenze sociali, prefigurare le conseguenze di eventi senza correre rischi, vivere più vite allo stesso tempo accumulando esperienze. Sono, in sostanza, simulatori di volo, modelli di realtà semplificati. Ed è giusto l’intensità delle emozioni a facilitare il cervello, ascoltatore attivo, nell’apprendere, rinsaldando le nozioni a più alto contenuto emotivo. Per giunta loro, le storie, soddisfano ancora l’antica funzione di collante socio-culturale, recitano la parte di forza coesiva nella partita giocata contro il caos e la morte. Ragion per cui gli uomini privilegeranno sempre l’irrazionalità dei miti e delle religioni: non possono rassegnarsi all’inspiegabile. Quindi, perché funzioni, un racconto deve: farci cadere in una trance sognante, perdere ogni traccia di noi stessi in una landa del tutto immaginata; necessariamente basarsi (come già aveva assodato il linguista russo V. J. Propp) su conflitti e il loro superamento finale, d’altronde hell is story-friendly; essere un cerchio, e un cerchio è un cerchio, può agire soltanto all’interno di ristretti perimetri di possibilità tramandati da generazioni di narratori; infine, essere morale perché, per catturarne l’attenzione e influenzare il cervello, esso non può essere contagiato da una momentanea sensazione di ripugnanza.



E se addirittura la politica e la psicoterapia si possono definire narrazione, che dire della memoria, dell’universo dei nostri ricordi? «È una forma di narrazione che esploro nel mio libro, e che spesso può essere viziata. Tutti – afferma l’autore – abbiamo piccole storie di vita personali o familiari, tutti possediamo il senso di chi siamo, di come siamo arrivati ​​fin qui e quali sono state le nostre esperienze formative. Quella storia di vita che raccontiamo agli altri e ci raccontiamo su noi stessi si basa sui ricordi. Il problema è che una volta che s’inizia a scavare nella profondità di questi ricordi, si scopre che sono sostanzialmente romanzati. Infatti mi piace pensare alla memoria come a una di quelle pellicole cinematografiche all’inizio delle quali viene proiettato l’avviso “This movie was based on a true story”».  Tuttavia va precisato che le reminiscenze possono anche avere la funzione positiva di sviluppare l’ego inserendo la nostra minima vita nel raggio di una storia più ampia e coerente. Ne è perfetto esempio lo stesso Gottschall, il quale, al termine della lezione in Sormani, riferisce che una volta, in un paese molto molto lontano del Texas, suo padre, il padre di suo padre e il padre del padre di suo padre dovettero lottare con le unghie e con i denti per resistere alla violenza fisico-psicologica di una società in cui avere una faccia che grida al mondo “sono ebreo” poteva procurare non pochi guai. «Per questo motivo mio padre mi diceva sempre di non spifferare ai quattro venti che sono ebreo. Oggi, però, la sua storia e quella di mio nonno e del mio bisnonno mi rendono più forte. Dal momento che furono coraggiosi e lottarono per la loro sopravvivenza, anch’io, che faccio parte di questo tutto, sono un po’ coraggioso».

Tratto da:"SIAMO L’ANIMALE CHE RACCONTA STORIE": JONATHAN GOTTSCHALL A CONFRONTO CON PESACH - di:  Stefania Ilaria Milani

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