STORIA DI UNA DONNA LIBERA tratto da "Le parole e le cose"

Scritture del suicidio: “Storia di una donna libera” di Françoise Giraud

by Isabella Mattazzi
di Isabella Mattazzi
Ogni narrazione autobiografica, a pensarci bene, è una scrittura post-mortem. Per raccontare di sé, per fare della propria vita un tessuto linguistico riducendone gli avvenimenti caotici a intrecci e nodi di una trama ben ordinata, bisogna prima averle sottratto la tridimensionalità dei corpi, il peso degli oggetti, il respiro sequenziale dei giorni. Ogni scrittore che racconti di sé, che abbia il potere di far coincidere il soggetto pronominale io con un qualcosa universalmente e comunemente identificato come "la propria identità", è in un certo senso un sopravvissuto. Un sopravvissuto a se stesso. Un sopravvissuto al mondo. Perché la parola possa nascere, il corpo che la porta in sé deve in qualche modo farsi da parte. O meglio, il corpo, i muscoli, il sangue di colui che scrive non possono che asciugarsi, in una sorta di transustanziazione laica tra carne e parola, facendosi altro, lamella interstiziale, fantasma risvegliato dal coma di un'esistenza vista come intrico di fatti senza alcuna soluzione di continuità per diventare "personaggio", prodotto di un ordine narrativo articolato secondo una griglia rigida di cause ed effetti.
Storia di una donna libera, autobiografia di Françoise Giroud, uscita postuma nel 2013 per Gallimard e presentata oggi in Italia da Neri Pozza (traduzione di Roberto Boi, prefazione di Alix de Saint-André, pp. 216, 18 euro) è a tutti gli effetti la storia di una sopravvivenza. Scritta dopo un tentativo di suicidio da barbiturici (anzi due, se consideriamo anche il goffo esperimento di tagliarsi le vene in ospedale) rappresenta realmente il risveglio da un coma. Nella accezione prima del suo significato, il coma è un torpore profondo. È il sonno della coscienza, l’estraneità di un corpo a se stesso, indifferenza radicale di un io rimasto impigliato sul fondo viscido del sogno e non più in grado di riaffiorare alla superficie del mondo che lo ha generato. Salvata per miracolo - e contro la sua volontà - dimessa dalla clinica dopo una cura forzata di antidepressivi e un primo approccio di terapia psicanalitica, Françoise Giroud, in quell'estate del 1960, sembra scrivere soprattutto per svegliarsi. Chiusa per tre mesi nella casa in Provenza di Hélène Lazareff (direttrice di "Elle" e sua migliore amica), ha bisogno di mettere nero su bianco la propria vita come quei pazienti che all'alba, ancora a letto, annotano i loro sogni su un quaderno per non dimenticarli. Il suo passato tutto intero ha conosciuto la notte artificiale del coma da sonniferi, il buio del suicidio, e adesso deve tornare come sogno, fantasma senza corpo, pura alterità narrativa perché ogni cosa possa finalmente trovare un nuovo ordine.

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