IL TEMPO

di Edoardo Milesi
Il tempo lo facciamo noi, l’orologio fa le ore.”
Marcello Piccardo
Quid ergo est tempus? Si nemo ex me quaeri,
scio: si quaerenti explicare velim, nescio.”

Agostino, Confessiones, XI
Che cos’è dunque il tempo? – osservava Agostino – Se non me lo chiedi, lo so: se te lo devo spiegare non lo so.
Definire cosa sia il tempo, ma soprattutto definirlo nel tempo, è impossibile per la sua stessa natura.
Il passato, il presente e il futuro solo nel nominarli si confondono tra loro. Il passato esiste solo perché sono in grado di parlarne nel suo futuro che è il presente che, tuttavia, mentre ne parlo è già passato. Così il passato rivive nel presente e insieme a lui condiziona il futuro.
Il passato è nella nostra memoria, il futuro è pura intuizione, solo perché sappiamo per esperienza che il tempo scorre in avanti. In ogni istante non può che essere terminato o da venire.
Per tutta la nostra esistenza lo rincorriamo, ne siamo ossessionati, da lui dipendono i nostri affanni.
Ma per fortuna le cose per accadere hanno bisogno anche di spazio che, al contrario, conosciamo e da sempre vogliamo dominare e continuamente, spesso in competizione con la natura, trasformiamo. È nello spazio che noi tracciamo la memoria del tempo.
Non è lui la dimensione oggettiva della nostra vita, ciò che condiziona scelte e comportamenti, che offre le opportunità, ma il “luogo”, inteso come insieme di situazioni economiche, politiche, relazionali.
Lo spazio almeno è riconoscibile dalla sua forma, dalla sua architettura. Ed è proprio l’architettura, lo spazio modificato dall’uomo, una delle chiavi di lettura della storia dell’umanità. Il simbolismo architettonico, in quanto riferito alla tradizione, ha a che fare esclusivamente col tempo al fine di farne emergere i significati perenni.
La prossimità delle opere di architettura, la loro stratificazione nel tempo, le fa vivere come voci e suoni in uno stato di coralità, conferendo all’architettura un potere di sfida nei confronti del tempo che nessun’altra arte possiede, ma che obbliga l’architetto ad assumere la dimensione storica, dunque del tempo come limite e come ispirazione.
E dunque il tempo esiste nelle azioni che misurano il non ancora e il non più.
Ma di nuovo il non ancora, inteso come imminenza del futuro, è misurabile solo col non più in quanto passato.
Antropologia e filosofia sostengono in modo affascinante, seppur ritenendo come sempre l’uomo unico essere pensante, che la vera differenza tra noi e l’animale è data proprio dalla sua consapevolezza del tempo. L’uomo nella sua evoluzione, sarebbe diventato veramente umano, “cambiando strada”, quando, rendendosi consapevole della morte, ha cominciato a seppellire i propri cari.
Nel mesolitico (35.000 anni fa) l’Homo sapiens prende coscienza dell’ambiente e dei cicli della natura. Compaiono le prime sepolture a significare il primo tentativo di non accettare passivamente la dura realtà naturale per come appare. Nascono in quel momento il canto e la musica, i primi mezzi per comunicare e per misurare il tempo.
Con la sepoltura l’uomo vuole difendersi dal tempo cercando di controllarlo. Almeno sospenderlo, mentre disperatamente insegue l’eternità per sé e i propri cari.
La morte è la vera dimostrazione del tempo perché è tempo compiuto. La sua verità si compie con la morte, che ne è la perfezione. Se le culture antiche, più legate al ciclico trascorrere delle stagioni, celebravano il tempo e la morte, la nostra – forse in un momento di eccessivo distacco dalla natura o di presunta onnipotenza – ha deciso di sconfiggere il tempo allontanando il pensiero della morte.
Le ore, i giorni, le stagioni scorrono perché la vita degli esseri comincia, si trasforma e finisce. Non è il tempo che modifica le cose, ma sono esse stesse che modificandosi lo creano. È dunque il tempo a esistere nelle cose, le quali in lui si trasformano e in lui finiscono.
La nostra mania di raccogliere, di collezionare oggetti dello stesso tipo anche per tutta la vita, dipende forse dal nostro desiderio di possedere il tempo controllandolo.
Attorno alla sua natura, che siamo incapaci di spiegare, costruiamo i nostri sentimenti, amore, disprezzo, odio, tenerezza per l’altro; e a causa sua continuamente cambiamo opinione su tutto. Lo stesso esistere non significa stare nel tempo, ma essere percepiti, essere nominati, avere un nome. Molte cose esistono solo nella nostra mente, fuori dal tempo, semplicemente perché abbiamo dato loro un nome.
Forse il tempo non esiste eppure è l’unità di misura di una delle nostre nevrosi giornaliere, la velocità. Qualcuno si è accorto che per vivere il tempo più a lungo non bisogna andare veloci (fast) ma più lentamente (slow).
Sullo slow e sul fast costruiamo costumi ed economie. Lo slow food, per contrastare la fretta nel mangiare che, privato della relazione conviviale, è divenuto tempo sprecato. E ora la slow medicine, proposta da alcuni medici che scoprono che diagnosticare malattie troppo in anticipo può essere controproducente, inutilmente invasivo, può portare a squilibri e a inutili dipendenze. In effetti, è il nostro corpo che sceglie di ammalarsi e decide di guarire; togliergli il tempo di decidere può costarci caro. La cura deve essere rivolta all’habitat, all’ambiente esterno che interviene pesantemente e in modo catartico sul nostro fisico e sulla nostra mente.
E allora il tempo non è vero che non esiste, anzi possiamo certamente credere a Heidegger quando sostiene che esistere è essere nel tempo e lo possiamo spiegare solo attraverso la nostra vita, ancora una volta attraverso le nostre emozioni, comunicando tra di noi, ascoltando di più chi ha avuto più tempo per vivere più a lungo o chi il tempo lo vive in modo diverso, con abilità diverse. Chiamare disabilità la non normalità, la non omologazione, significa perdere occasioni preziose, potenziali sconosciuti che vanno ascoltati, esplorati e apprezzati da subito proprio perché diversi.
Il tempo è l’unica nostra vera ricchezza che qualcuno crede di mascherare con la cosmetica, rallentandone i segni e sperando così, invano, di prolungarlo, senza riflettere che le ricchezze vere vanno mostrate e condivise. Stare con i nostri vecchi, conoscere il loro tempo è fondamentale molto più che accumulare ricordi inanimati, feticci che segnano il tempo trascorso.
Qualcuno si trova a misurare la propria vita in base alle ricchezze materiali accumulate, ritenendosi arrivato quando supera una certa soglia di averi, senza pensare che soddisfatto significa finito, concluso, esausto. Ben altra cosa è pensare al tempo come a un insieme di dettagli, che si snodano e riannodano senza fine, lui sempre lo stesso, ma con esseri sempre rinnovati. Un eterno movimento, un fiume denso di vite con le quali dobbiamo nutrire la nostra conoscenza.
Progettare relazioni, interazioni, inclusioni piuttosto che confini fisici e temporali significa fare un cambiamento radicale rispetto al nostro modo attuale di impiegare il tempo.

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