SULL'EDUCARE

Sospinti da interessi o ideologie, siamo indotti a credenze semplificartici e binarie, a distinzioni rigide che scavalcano la complessità del reale.
La formazione, in generale, dovrebbe prevedere un insegnamento dedicato alla “conoscenza della conoscenza”, compito a cui devono contribuire, insieme alla filosofia, la psicologia e le scienze cognitive, la letteratura e la storia. Ogni conoscenza è traduzione/tradimento, costruzione e non riproduzione della realtà; siamo destinati a interpretare di continuo, il che ci condanna in modo pressoché inevitabile all'errore e all'illusione. Bisogna fare, però, gli errori “giusti”, quelli che inducono a cercare le ragioni delle difficoltà, a cogliere relazioni inattese, indizi che svelano quel che restava nascosto.
“Credo che la cultura sia il presentimento di quello che non si sa” (Giuseppe Pontiggia).
Le nostre strategie possono condurre a esiti opposti alle nostre previsioni, siamo sempre più inermi ad affrontare la “civiltà del rischio” e le disavventure dell’esistenza. Forse, potremmo cominciare a ricordare che il pensiero a cui affidarci è sagacia, intuizione, elasticità mentale, pronta a confrontarsi con gli incerti del mondo.
Viviamo in un sistema complesso che è un intreccio di relazioni, dove le cose comunicano fra loro e con l’ambiente, dove l’osservatore stesso è integrato nel sistema che osserva; cause minime possono allora produrre effetti catastrofici.
Per cogliere il complesso intrico che caratterizza i problemi del nostro tempo occorre che ogni pedagogia assuma per base il grande racconto. Solo su questo sfondo la storia umana si illumina, si svela l’unità antropologica nelle sue diversità individuali e culturali. Diventa così possibile comprendere che l’umanità intera partecipa a una comunità di destino, grazie ad una formazione che consenta di collegare la biologia e la fisica, la cosmologia e la cultura umanistica e, più in generale, di cogliere legami e connessioni, al di là della pratica disgiuntiva e separatrice del sapere classico. 
Un sistema complesso funziona al modo di un ologramma, come una parte riproduce il tutto: la mondializzazione è all'interno di ciascuno di noi e noi portiamo tracce del percorso dell’intera umanità.
C'è bisogno di un’etica della comprensione umana. Oggi, il grande male è l’incomprensione, non solo fra stranieri, ma anche tra membri di una stessa società, di una stessa famiglia. Al cuore dell’educazione va posta l’acquisizione di competenze esistenziali e non solo di quelle professionali richieste dal dominio della tecno-economia.
La comprensione richiede di apprendere testo e contesto, caso locale e situazione globale; chiede ancor più di comprendere l’incomprensione, cioè le modalità psico-sociali dell’esclusione e del rifiuto del diverso.
La “comprensione umana”è il luogo in cui prendere coscienza dei condizionamenti subiti, degli imprinting che hanno marchiato la nostra infanzia e la nostra adolescenza; connette i saperi all'esigenza del ben vivere e di una vita buona. Si tratta di sviluppare le proprie attitudini, trasformando le conoscenza acquisite in sapienza, in arte di vivere.
Vivere è il mestiere che occorre insegnare. La virtù specifica dell'educatore è la benevolenza, quella che non deve mancare in chi dispone di autorità, una virtù che non si impone ma si diffonde, mediante un clima partecipe ed erotizzato.
Essere educatori in una società senza padri e senza maestri, significa fare del sapere un oggetto del desiderio, promuovere curiosità così da mettere in moto la vita e allargarne l’orizzonte.
Il rapporto fra educatore ed educato deve tenere conto dei saperi diffusi lungo la Rete, che rendono talvolta l’allievo più competente del maestro.


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