Partendo dal paradosso
“affrettati, lentamente”, anziché inscenare un conflitto da risolvere
unilateralmente tra lentezza e velocità, si può partire dalla complessità delle
relazioni tra due modalità del pensiero: da un lato il pensiero rapido, prevalentemente automatico e inconscio, che guida
le reazioni irriflesse e immediate agli stimoli ambientali, legate alle
necessità primarie della sopravvivenza; dall’altro lato il pensiero lento, riflessivo, logico, il pensiero razionale
associato all’emisfero sinistro, strutturato secondo sequenze temporali,
espresso e messo in forma attraverso il linguaggio.
Una zona intermedia, quasi un punto di
contatto tra le due modalità del pensiero, è costituita dall’intuizione, una declinazione del pensiero rapido che
richiede l’attivazione del cervello immaginativo, ed è libera da servizi
routinari. Sganciata dalla risposta automatica agli stimoli esterni e dalle
funzioni di elaborazione della continuità psichica interna, l’intuizione è una
facoltà cognitiva dinamica, che permette alla mente di scartare di lato, di
collegare ambiti diversi, di creare relazioni inattese e non previste.
Coerentemente, l’intuizione insiste su circuiti plastici come quelli del
pensiero lento, e non sui circuiti rigidi del pensiero automatico. L’intuizione
anzi diventa produttiva soltanto quando le associazioni di idee possono
depositarsi nel tempo lento dell’elaborazione razionale e della verifica,
dell’interazione con la memoria, della combinazione con l’archivio mentale.
Il “rumore cerebrale”,
dell’attività elettrica libera, non strutturata è rilevabile nel cervello durante
i momenti di minore concentrazione e impiego funzionale: dalla combinazione di
questa attività spontanea, dalla sua disposizione casuale in pattern significativi,
si genera la scintilla che aziona la creatività. Il cervello collettivo diventa
l’insieme di processi sociali e relazionali attraverso i quali si incubano le
idee innovative e i germi della creatività, sintetizzati e messi in forma da
alcuni cervelli individuali.
Se il pensiero lento
ha bisogno di stabilità e di durata, si fonda sulla continuità e sulla
stratificazione dinamica di elementi concatenati nel tempo e legati da rapporti
consequenziali, il pensiero rapido crea una dimensione temporale discreta, in senso matematico, o saltatoria, che tende
a dissolvere sia la continuità retrospettiva costituita dalla memoria, sia
quella proiettiva della progettazione del futuro. Il tempo rapido si compone di
una serie di esplosioni isolate, è una costellazione di punti separati, ognuno
con il proprio inizio, il proprio momentaneo svolgimento, la propria fine che
non lascia tracce. È il tempo funzionale al consumo e ai suoi aspetti
compulsivi, alimentati dalla necessità di rilanciare continuamente sul
desiderio, di stimolare il godimento attraverso la quantità e la frequenza
drogata degli impulsi. Dentro il vortice
dell’accelerazione, la difesa della
lentezza diventa un’istanza politica e una questione civile, che pone il
problema della cura.
Cosa se ne fa il mondo
rapido, consumato in tempo reale, della
“saggezza che la società dei consumi spesso considera decadimento cerebrale”?
Occorre interrogarsi
sulla mutazione cognitiva prodotta dalla ristrutturazione del sistema
comunicativo, e abilitata dalla tecnologia digitale, sempre più aderente ai
processi della mente umana e all’anatomia del corpo.
Mentre il pensiero analogico funziona per
separazione, distinzione, taglio, il pensiero
digitale tende all’ibridazione tra il continuum corpo-mente e le
sue protesi tecnologiche, che diventano protesi cognitive, e contribuiscono a
modificare la struttura delle connessioni cerebrali, e perfino la conformazione
e le attitudini del sistema motorio. L’ambiente della comunicazione digitale,
con la compressione di tempi e spazi, la ripetizione di pattern ricorrenti,
la richiesta continua di interattività, sta modellando un “cervello globalizzato”, un cervello collettivo che sposta in una
dimensione relazionale il baricentro dei processi cognitivi, creando una sorta
di mente diffusa. Non si tratta però
dell’intelligenza collettiva, piuttosto di un cervello automatizzato nel
quale prevale l’istintualità dell’emisfero destro, cioè le funzioni reattive
che eludono l’elaborazione razionale. La rapidità del pensiero digitale del
resto produce l’immersione dell’individuo in una sorta di ambiente neoprimordiale,
in cui ritorna predominante la necessità di attivare risposte immediate: la sopravvivenza è ora legata alla capacità
di decifrare rapidamente i segni della foresta comunicativa.
Pensiero digitale e
pensiero intuitivo, in definitiva, hanno un funzionamento analogo: sono
entrambe dimensioni discrete, che si attivano per emergenze puntuali e
improvvise, e strutturano i significati secondo processi di aggregazione
rapida, lasciandoli fluttuare in galassie e costellazioni compresenti, anziché
disporli lungo una linearità temporale e consequenziale.
Nel corso della tarda
modernità l’immaginario occidentale ha investito la detective story, verso la quale l’industria culturale
ha indirizzato ingenti risorse economiche e creative, di una richiesta di senso
diffusa, di una missione di ricomposizione dell’universo frammentario e
incomprensibile della contemporaneità. Il “paradigma indiziario” ha incarnato
una forma di pensiero divergente, puntuale, empirico, che segna uno scarto
rispetto alla logica classica e alla sua lentezza, e si offre
come una delle possibilità di superamento della crisi della
ragione cartesiana.
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