Riporto tal quale un post dal Blog "TO WRITE DOWN" , perchè i contenuti e le parole  mi hanno colta in piena sintonia con loro: c'è ancora qualcuno che pensa oltre, sente oltre...
Un omaggio all'autrice del blog: Grazia.


Il primo, L’estate alla fine del secolo, è un romanzo generazionale che mette a confronto un ragazzino con un nonno: un incontro di pensieri e di aspirazioni, di vita vissuta e di vita ancora da vivere che mi ha molto colpita, tanto da convincermi a leggere anche il suo ultimo libro, questo Se la vita che salvi è la tua, edito da Einaudi, di cui sto per scrivere ora.
E che si riassume in questa frase:
Non è difficile arrendersi. Difficile è trovare la forza per salvarsi la vita.
La storia narrata in Se la vita che salvi è la tua è potentissima e ricca di aspettative. Ma fa male, vi avverto.
C’è un trentasettenne, Andrea Luna, insegnante precario e padre mancato. Per sfuggire a una crisi coniugale fa un viaggio da solo a New York: la scusa ufficiale è quella di vedere Il ritorno del figliol prodigo di Rembrandt, in esposizione al Metropolitan Museum.
Quella che doveva essere una breve vacanza culturale si trasforma in una sorta di caduta, in un viaggio verso il basso, uno scendere che gli consentirà di arricchirsi grazie ad esperienze limite e ad incontri preziosi.
Se è vero quello che scrive Hillman nel suo Il codice dell’anima, l’uomo per elevarsi deve scendere: ed è proprio quello che fa Andrea, si immerge fino ai capelli negli abissi del mondo e di se stesso. Fa del male a tutti, Andrea, e anche se sembra farlo inconsapevolmente la sua mancanza di sensibilità e di empatia ferisce. E fa pensare.
Leggere Se la vita che salvi è la tua offre una esperienza a tratti dolorosa, obbligando il lettore a comprendere il punto di vista di un uomo davvero deciso a toccare il fondo: personalmente mi sono trovata spiazzata e molte volte ferita. Non sempre, lo ammetto, ho fatto il tifo per questo uomo difficile da capire. Qualche volta l’ho mandato al diavolo mettendomi nei panni delle persone che venivano calpestate dal suo atteggiamento.
Nel suo percorso verso il basso, Andrea fa un incontro molto particolare: si tratta di Walter, uno dei custodi del Met il cui compito è quello di sorvegliare proprio la sala dedicata a Rembrandt. E’ a Walter che Geda mette in bocca le parole che a poco poco portano Andrea a una maggiore consapevolezza di sé.
Come in questi due episodi. Nel primo, seduti al tavolino della caffetteria del museo, Walter parla di sé e della sua famiglia: il custode racconta ad Andrea della sua infanzia, del suo essere stato cresciuto dal padre dopo l’annegamento della madre, e dello zio aspirante scrittore che gli aveva rafforzato l’autostima con parole di incoraggiamento verso la vita (Tu sei una persona speciale e nella vita potrai fare qualsiasi cosa, qualsiasi. Basta che tu lo voglia). Di come però la vita non abbia dato seguito alle sue aspirazioni (voleva fare il medico), di come le stesse siano state frustrate. E alla domanda di  Andrea su cosa dica ai suoi figli Walter risponde così:
Perciò: cosa dico ai miei figli, signore? Scusi la schiettezza, ma ai miei figli non dico un cazzo. Mi alzo ogni giorno e vengo al lavoro e, se rimango senza, vado a cercarlo. [...] I miei figli faranno quello che potranno, quello che la vita gli offrirà. Ciò che posso mostrargli è come. Come fare le cose, come alzarsi e andare incontro al giorno che ogni mattina Dio ci srotola di fronte quando il primo sole illumina i tetti delle case, di chiunque siano quelle case. Non ho molta fiducia nelle parole, signore. L’esempio, quello sì.
In un altro episodio, Walter parla della madre, che faceva l’insegnante e che aveva una riserva di saggezza piuttosto cospicua riservata sia ai suoi alunni sia ai suoi figli. Il discorso sul perdono, dice Walter, era il suo preferito. [...]
E il discorso sul perdono partiva proprio dalla differenza tra vergogna e senso di colpa, perchè la vergogna, signore, la vergogna è come dire “io sono sbagliato” mentre il senso di colpa è come dire “ho fatto una cosa sbagliata”, ecco qual era il senso del discorso.
La vergogna è una pozza di sabbie mobili, ti muovi e ti disperi e non fai altro che affondare. [...] Tutti facciamo cose sbagliate. Ma noi non siamo l’errore. Siamo solo quelli che l’hanno commesso.
Andrea Luna nella storia che ci racconta Fabio Geda di errori ne fa tanti, ma, appunto, non è lui l’errore. E il lettore, per quanto a volte tifi contro, non può non saperlo. 






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