La formazione
della scrittrice, 34 / Franca Mancinelli
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[Questo è il
trentaquattresimo articolo della serie La formazione della scrittrice (esce il lunedì), alla quale si è da
tempo affiancata la serie La formazione dello scrittore (esce il giovedì). Ringrazio Franca
per la disponibilità. gm].
Cedere
la parola
Ci si forma per distruzione. Una parte
di noi precipita in un luogo senza fondo. Piccole bolle risalgono verso la
superficie: lievi increspature poi nulla, più nulla. Un silenzio compatto, una
sepoltura perfetta. Un sacrificio che compie qualcuno per noi esaudendo il
nostro voto (la nostra paura più grande) o che compiamo noi stessi bendati e
inconsapevoli, spinti da invisibili mani.
Scrivo perché ho ceduto la parola. Cedo
la parola alla bocca degli altri. La cedo fino a perderla, fino a ritrovarmi
ammutolita, imbavagliata, a una frazione di secondo dalla possibilità di
ritornare. Ma quel secondo è decisivo, in quel secondo si è già pattuito,
giudicato, stabilita la visione delle cose, intessuta la discussione, riso e
deciso anche per te: alla presenza di te che affondi in una delle tante
scuciture, maglie allargate e strappi del reale. Sprofondi nell'ascolto,
lentamente perdi consistenza, cadi a capofitto. Le parole si stagliano
altissime, come nuvole bianche contro un cielo nitido. Appartengono agli
adulti, a un mondo che si svolge, che continua ad accadere. Finché qualcuno ha
la parola ascolti, persuasa del suo diritto a occupare uno spazio di senso e di
suono, della sua ragione a esistere così, nella forza che ha chi prende la
parola, contenendosi entro i propri confini o cancellando anche i tuoi
labilissimi contorni. Perdendo la parola divento un animale docile, un albero
che fruscia. Tutti i graffi e i segni che porto, le fratture, il sangue perso,
vengono da questa sfasatura rispetto al reale che accade. Una fenditura in cui
è caduto anche qualche grano di polvere. Un giorno vi ho trovato un filo
d’erba.
Una lunga tavola apparecchiata per il
pranzo. Tutti i parenti seduti. Tu avanzi piccola accanto all’ombra paterna.
Per un attimo intuisci: è questo il momento per dire. La frase si staglia. Hai
trovato le parole, giuste come un vestito in cui provare a non sentirsi a
disagio. È la tua occasione: puoi portare quella cosa nascosta finalmente là
fuori, vedere la forma e la consistenza che avrebbe preso al contatto
dell’aria, nelle orecchie degli altri. Ma tutto è rimasto dentro. La frase si è
incisa nella mente, un soffio senza suono che non esce dal petto. Subito sono
apparse anche le conseguenze che avrebbe portato se avesse raggiunto le labbra
(domande, rimproveri, una colpa da spartire, sofferenza versata sugli altri).
Ho deglutito. Quella sequenza di parole poteva scendere in me, tornare a
sciogliersi nel silenzio lasciando intatta la portata del suo significato. Come
un forziere che avrebbe potuto essere riscoperto negli anni, oppure finire
dimenticato. Per ora dovevo soltanto lasciarlo depositare. Avevo uno spazio
infinito per accoglierlo, lì dove dormivano i piccoli animali morti che avevo
curato e nutrito, i semi che non potevano crescere. E in fondo i confini tra
ciò che è reale e ciò che abbiamo immaginato sono così fragili che avrei potuto
lasciare che fossero confusi dall’acqua e dal vento, cancellati. Forse non era
accaduto niente. Forse quella custodia sigillata era vuota.
È stata questa la prima volta che ho
scritto. Ho scritto in me, sul mio corpo così profondamente da prendere da
allora la strada su cui cammino, quella che nel tempo mi sarebbe apparsa più
nitidamente come un destino. Se avessi portato alla bocca quella frase oggi
sarei un’altra persona. La parte di vita che ho trascorso finora sarebbe stata
diversa. Per questo per me tutto continua a giocarsi con le parole. Con le
parole ho un conto aperto.
Ho ceduto la parola così tante volte
nella vita da entrare spesso a fare parte dei fantasmi, quelle presenze che si
aggirano sfiorando gli altri e le cose, come scontando una loro forma di
condanna. Nella prima adolescenza conoscevo centimetro per centimetro il
pavimento dell’autobus che scortava il mio gruppo di amici da scuola a casa.
Ero sempre al margine del cerchio, sempre sulla soglia del non esserci. Mi
sentivo così estranea da consolarmi al pensiero che comunque, accanto al bar in
cui si ritrovava la mia compagnia c’era un grande pino e io ero tutto il tempo
protetta dalla sua chioma. In quegli anni ho iniziato a prendere la parola nel
silenzio della scrittura. Una grafia sottilissima che riempiva lentamente le pagine
di quaderni: disegnavo con le parole quello che vedevo dalla finestra, annotavo
quanto mi accadeva. Ma la vita era così forte, si incideva così profondamente
da farmi sentire quanto fossero lievi quei miei segni sulla carta: quei
quaderni avrebbero potuto essere lasciati al vento e alla pioggia senza che ciò
avrebbe comportato una perdita per me. Non contenevano altro che qualcosa di
debole e minimo che sfuggiva alla grande piena. Un sottile filo d’acqua di
scolo accanto al fiume della vita. Erano solo i libri che andavo leggendo in
quegli anni in lunghi pomeriggi ad abbassare i miei occhi dallo spettacolo
dell’aria e della luce per guidarli dentro alle parole di Proust, Dostoevskij,
Rilke, Pessoa, Eliot e delle altre grandi querce sotto a cui mi fermavo a
spiare il mondo. Non rileggevo quasi mai le pagine dei miei quaderni, le
voltavo insieme alla giornata trascorsa, con il senso che comunque qualcosa era
rimasto, che avrei potuto tornare a rivedere quei momenti svolgersi sotto ai
miei occhi come un filmino. A un tratto, verso gli ultimi anni della scuola
superiore, quel filo d’acqua che aveva seguito la mia vita scomparve.
Risucchiato dalla terra. Prosciugato da quella bestia meravigliosa e
imprevedibile dell’esistenza.
Tornò quando, durante l’università, mi
ritrovai spiaggiata. Una bussola capovolta mi aveva guidata a dirigermi verso
la fine. Ritrovai l’acqua voltandomi indietro, riconoscendo una sequenza
perduta dell’infanzia, e il silenzio che l’aveva avvolta. Tornai a prendere la
parola nella scrittura. Con una sensazione che non avevo mai provato: quella di
ritrovare una verità custodita dalle parole, protetta dal tempo e insieme
sprigionata con la sua carica di emozioni nella lettura. Nacquero i testi che
andarono a formare Mala kruna, il mio primo libro. In quel periodo ero bruciata
dalla necessità di portare alla parola: sapevo esattamente che cosa volevo
dire, mi mancava una lingua, la cercavo disperatamente, con un’incertezza
ossessiva che mi portava a formare versi quasi marchiati sul corpo, incisi,
nella sensazione costante di una frana, di un cedimento che poteva travolgere
tutto. Inizialmente avevo steso i primi testi sull'infanzia in una forma vicina
al racconto in versi. Poi li sacrificai con tagli e amputazioni. Avevo iniziato
a considerare come, in realtà, non importasse a nessuno il contenuto di un
vissuto per quanto traumatico. Se pretendevo ascolto da un altro dovevo essere
pronta a perdere quanto di più occasionale avevo portato con me, dettagli che
distoglievano soltanto l’attenzione. È stato meraviglioso scoprire come potessi
lasciare andare parte della mia vicenda, liberarmene per poterla salvare in una
forma che chiamava gli occhi degli altri, come una terra umida fiutata da un
muso. E scoprire anche come, quanto della mia vita non aveva preso parola e
continuava ad essere protetto e trattenuto nel mio silenzio, si aprisse nella
scrittura, riemergesse cicatrizzandosi. La lingua che avevo trovato mi liberava
e insieme mi proteggeva. Dopo questo viaggio attraverso le mie ferite non avrei
immaginato di scrivere un altro libro di poesia. Invece da un distacco doloroso
e dalla crisi che ne è seguita è nato Pasta madre. Il dato biografico ora era
quasi trasceso. Scrivendo ero finalmente in parte riuscita ad esaudire il
desiderio più grande: liberarmi di me stessa, senza alcuna tragedia, sfiorando
le corde della gioia. Lasciando che nei miei contorni rivivessero gli alberi e
gli animali, che mi attraversassero e ricomprendessero nella loro corrente.
L’ho fatto continuando ad occupare, come nella vita, lo spazio minimo di suono
e di senso: i testi più ampi superano appena i dieci versi. E il silenzio è
dappertutto, tra le parole e tra le sette parti che compongono il libro, come
brevi isole nel bianco.
Ciò che ha preso parola ha un sepolcro.
Può finalmente addormentarsi, smettere di bussarti alle tempie. La scrittura
non risarcisce nessuna perdita. I silenzi in cui cadi restano silenzi, con
l’irrealtà che si avvicina e ti minaccia, gli altri che arretrano verso se
stessi o avanzano a prendersi anche la tua parola, la tua possibilità di
esistenza. La scrittura però ti nutre e cura come una madre. Prende con sé i
tuoi balbettii, i tuoi mozziconi di frasi e rende loro il tempo e il calore di
cui hanno bisogno per lievitare fino all'altro, fino a un senso.
Forse con Pasta madre ho iniziato a
cedere la parola senza perderla. A donarla agli altri e alle cose che non hanno
una lingua, che possono attraversare e riaffiorare nei silenzi della mia. Se
penso a come scrivere mi ha formato negli anni riconosco come, lentamente, lo
spazio dell’ascolto mi ha donato la parola e il coraggio di prenderla. È grande
il debito che porto a fratelli e maestri che sono stati dighe e argini alla mia
incertezza. Il loro sguardo lucido vedeva quello che avrei scorto soltanto con
il tempo.
Sono loro le mani che ho portato e porto
sul dorso della mia, scrivendo, come ora, custodita nel tepore. Nominarle una
per una prenderebbe l’apparenza di un saluto, di un congedo. Preferisco
continuare nel loro peso che preme, deciso e lieve, verso un’altra forma, un
altro impasto.
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