UN SAPORE DI RUGGINE E OSSA


Un sapore di ruggine e ossa.
Tocca le corde profonde dell'anima  questo film. I personaggi sono così umani, vanno oltre la bellezza della protagonista, l'apparente bestialità di lui. All'inizio sembra parlare di emarginati, persone senza cuore, persone maltrattate dalla vita, facenti parte di quel mondo che non vuoi vedere. Ma, mano  a mano che procede, ho finito per sentirmi io l'emarginata, ho finito per chiedermi se una "vita per bene" sia davvero "una vita per bene", una vita normale sia davvero tale.
Lo consiglio. Da seguire con l'attenzione d'un genitore ed il cuore di chi ha vissuto a lungo, abbastanza per comprendere che occorre vedere l'altro, non guardarlo, lasciargli il tempo, non correre.


RECENSIONE DI Marianna Cappi 
Un film a tinte forti temperato da una scrittura in levare

Nel nord della Francia, Ali si ritrova improvvisamente sulle spalle Sam, il figlio di cinque anni 
che conosce appena. Senza un tetto né un soldo, i due trovano accoglienza a sud, ad Antibes, 
in casa della sorella di Alì. Tutto sembra andare subito meglio. Il giovane padre trova un lavoro 
come buttafuori in una discoteca e, una sera, conosce Stephane, bella e sicura, animatrice di 
uno spettacolo di orche marine. Una tragedia, però, rovescia presto la loro condizione.
A partire da alcuni racconti del canadese Craig Davidson, Audiard e Thomas Bidegain, 
già coppia creativa nel Profeta, traggono un racconto cinematografico a tinte forti, temperate
però da una scrittura delle scene tutta in levare. La trama e la regia sono estremamente 
coerenti nel seguire uno stesso rischiosissimo movimento, che spinge il film verso il 
melodramma e non solo verso la singola tragica virata del destino ma verso la 
concatenazione di disgrazie, salvo poi rientrare appena in tempo, addolcire l'impatto della 
storia con "la ruggine" di un personaggio maschile straordinario, per giunta trovando 
un appiglio narrativo che tutto giustifica e tutto rilancia. Un equilibrismo che può anche infastidire 
ma che rende il film teso, malgrado alcune mosse prevedibili.
Come spesso, nella filmografia di Audiard, corpo e spirito fanno tutt'uno, si ammaccano e 
si rimarginano insieme, senza bisogno di troppe parole: al contrario, la comunicazione, specie
quella femminile, passa attraverso un linguaggio muto ma intimamente comprensivo 
(qui è Stef che "parla" con l'animale ma anche il "dialogo" sessuale che si approfondisce 
senza l'uso di parole).
La macchina da presa del regista non è certo invisibile e le tesi, dietro il suo modo di filmare,
sono sempre molto evidenti. Questo film non fa eccezione e anzi spinge più che mai sui 
contrasti manichei tra bellezza e squallore, forza e debolezza, spirituali e letterali, fin quasi alla 
maniera. Ma raggiunge un risultato non scontato laddove, pur essendo in realtà un lavoro 
molto scritto, dove tutto, fin dal primo istante, è pensato per tornare a domandar vendetta, 
la direzione degli attori e la qualità dei dialoghi ci distraggono magistralmente, facendo sì che 
non ce ne accorgiamo quasi mai. La capacità del miglior cinema di Audiard di scartarsi da 
un percorso troppo rigido o incline alla retorica, questa volta non si manifesta né a livello di 
soggetto né di regia ma si ritrova più sottilmente nelle pieghe della messa in scena, nei gesti e 
nelle espressioni degli attori.

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